Quando nel 1992 alcuni procuratori italiani diedero inizio alle indagini di “Mani pulite”, l’opinione pubblica si schierò dalla parte dei magistrati. La narrazione di quelle vicende tenne a lungo banco sui media. I cittadini sostennero il pool di magistrati con fiaccolate, slogan, saponi “mani pulite” e orologi “ora legale”. Le trasmissioni con Di Pietro registravano share altissimi. La prima repubblica, il finanziamento pubblico ai partiti e i partiti stessi si dissolsero. Ma la seconda repubblica replicò i reati della prima e i politici seguitarono a farsi corrompere, anche se i partiti avevano nuovi nomi. Quella fase della storia italiana dimostrò come, da un’iniziale indignazione, i cittadini possano virare verso l’indifferenza e la rassegnazione, dietro la spinta di un controllo mediatico della narrazione che diluisce la rabbia monopolizzandola. Si realizzò la più acuta intuizione di Tomasi Di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Oggi, nel momento in cui un dissenso autentico si organizza, la classe dominante e i media lo ignorano, lo criminalizzano, lo reprimono e, infine, tentano di renderlo innocuo. Negli stessi giorni delle manifestazioni contro il green pass, numerosi cittadini hanno partecipato a iniziative gradite al potere: Friday for future; il sostegno al DDL Zan; la manifestazione della CGIL con palloncini contro il fascismo. Il dissenso cresce e il sistema trova gli strumenti per annientarne la visibilità e la reputazione.
Nella resistenza di questo biennio, molte sono donne: animano i dibattiti e le piazze, riempitesi al ritmo dei decreti che introducono il green pass. Distanti dalla temperie, le giovani generazioni, anche se vi sono studenti universitari contrari al green pass: Silvia, per esempio, studentessa di filosofia a Bologna, si è rifiutata di esibire il green pass per frequentare le lezioni. Ma la donna assurta a simbolo della protesta è emersa il 25 settembre 2021 sul palco dalla grande manifestazione romana di piazza San Giovanni contro il green pass in cui si sono susseguiti decine di interventi. I media mainstream hanno ignorato la manifestazione e si sono concentrati solo sul quel simbolo, la vicequestore di Roma, Nunzia Alessandra Schilirò, di cui hanno stigmatizzato l’inopportunità dell’intervento. La Schilirò, dopo alcuni giorni, è stata sospesa. I giornalisti le chiedevano interviste, migliaia di cittadini le inviavano messaggi.
Su quel palco la vicequestore aveva sostenuto che il green pass è discriminatorio e anticostituzionale e aveva concluso dicendo: “Serve unità: dobbiamo unire le nostre energie e le nostre forze per indicare a tutti una via migliore”. A distanza di due mesi, Nandra Schilirò ha indetto il 14 novembre, a Firenze, senza il supporto di alcuna organizzazione o associazione, una manifestazione di sole donne: “Venere vincerà”. Cosa è accaduto da quel 25 settembre, in cui la vicequestore invocava “unità”, al 14 novembre, in cui si svolgerà una manifestazione di sole donne? In un video, l’artefice solitaria spiega: “dobbiamo riportare nel mondo l’energia femminile […] dobbiamo riportare l’amore, il sogno, la leggerezza, l’arte, la spiritualità: tutto quello che significa energia femminile nel mondo”. Eppure le manifestazioni strabordano di donne e di quell’”energia femminile” citata numerose volte nel breve video della Schilirò, autrice anche di libri di narrativa.
Che abbia visto quelle donne più come lettrici dei suoi romanzi che come dissidenti e la manifestazione fiorentina come un’opportunità di marketing? Anche le immagini dei portuali triestini, cui si sono aggiunti migliaia di cittadini pacifici provenienti da tutta Italia, incarnano l’archetipo junghiano dell’Anima – chiamata dalla Schilirò “energia femminile” – declinata nella preghiera dei portuali, nella solidarietà dei manifestanti, nelle modalità delle proteste. Non occorre dividere la protesta, ma agevolarne il percorso unitario. L’operazione Schilirò, invece, indebolisce il dissenso e, il “sogno” da lei evocato, rischia di divenire il debordiano “sonno”.
Ed ecco le affinità con lo sbiadimento dell’indignazione per “Mani pulite”: nel momento in cui Nunzia Schilirò appare in un video il cui linguaggio cromatico è il rosa shocking della felpa, dell’ombretto, dello smalto e del rossetto; in cui la sovversione è il boccolo rocaille; in cui una grande rosa artificiale tra le mani è un elemento semiotico, comprendiamo che a questo immaginario è affidata simmetricamente la sconfitta della politica, la diluizione del dissenso. In “Piazza Libertà”, programma autogestito di Canale Italia, la Schilirò dice: “Ho proposto di fare una manifestazione di solo donne […] perché voglio vedere se qualcuno avrà il coraggio di usare gesti di violenza […] forse siamo noi che dobbiamo dare giustizia al mondo”. La saggista e storica Ornella Mariani, presente in studio, rimane “sconcertata” e dice: ”Questa feccia che chiamiamo polizia […] le donne le ha già picchiate; non occorre fare una manifestazione.” Ma la vicequestore vuole che i suoi colleghi colpiscano apertamente e che si palesino: una manifestazione di solo donne non si è mai vista.
Le affermazioni della Schilirò sono smentite dagli avvenimenti che vanno dal 1968 al 1980 in cui, migliaia di donne, sfilarono in cortei solo femminili dando luogo a un impetuoso movimento femminista. Come non notare, poi, la mutazione dei contenuti della vicequestore che, dal palco del 25 settembre, parlava di Costituzione e di disobbedienza civile e, settimane dopo, parla di “energia femminile” e aspetta autobus freepass a Firenze? Il 25 settembre parlava con i manifestanti ribelli; oggi, in un’aura pop glamour (non a caso una delle sculture dell’artista Jeff Koons è una versione gonfiabile della Venere di Willendorf del colore d’elezione della vicequestore), parla con un target di boomers nostalgici o che aspirano a vivere una protesta edulcorata, svuotata della connotazione sovversiva: una comunità espressione della metamorfosi antropologica che aspira alla sacralizzazione della ribellione come nuovo status symbol.
Come già i tatuaggi, i piercing, gli anfibi, le creste e tutti i segni delle controculture delle decadi precedenti, poi immessi nel mainstream, allo stesso modo il dissenso contemporaneo subisce il fuoco amico di una donna acclamata come eroina, ma che si fa palinsesto al servizio dell’establishment per una collettività senza memoria in cui l’individuo si riconosce in un immaginario che ne potenzi la propria identità, il proprio angolo di mondo minacciati dalla dimensione global.
CLAUDIA PLACANICA