La copertura del caso Assange e lo sdegno profondo per come la vicenda si é trascinata per anni si sta drammaticamente affievolendo, si sta trasformando in una di quelle storie che ricompaiono ogni tanto nei quotidiani, ma alla fine nulla di più. Complici i media, la giustizia, il pubblico.

Ieri, dopo una lunga assenza dai notiziari di tutto il mondo, arriva finalmente la notizia che il magistrato Paul Goldspring, in una comparizione lampo di appena 7 minuti nella corte londinese che segue il caso, ha emesso l’ordine formale di estradizione del noto giornalista australiano verso gli Stati Uniti.

E così, passo dopo passo, Itaca diventa sempre più lontana per il nostro Ulisse.

La moglie Stella Morris, davanti alle telecamere, ha ricordato tra le lacrime che il caso del marito é un caso esclusivamente politico, che vede un establishment che vuole coprire e proteggere sé stesso piuttosto che difendere la verità ed esporre i crimini per cui dovrebbe pagare. “Inoltre“, continua la donna, “nessuno dovrebbe essere estradato per motivi esclusivamente politici“. La Morris ha inoltre ricordato che sia il PM Boris Johnson, sia il ministro Priti Patel non hanno obblighi per quel che riguarda l’estradizione, a maggior ragione per quello che riguarda i prigionieri politici, e che se vogliono possono fermare il procedimento quando vogliono.

Ricordiamo a beneficio di cronaca che in USA il giornalista australiano fondatore di  Wikileaks potrebbe arrivare ad una condanna a 175 anni di carcere, per i reati che gli vengono contestati. In sostanza una condanna a morte che seppur non formale sarebbe però sostanziale, poiché nelle condizioni di salute precarie in cui l’uomo già versa da tempo potrebbe portare alla cronaca di una tragedia tristemente e ampiamente annunciata.

In effetti, affinché la decisione di estradizione sia non solo definitiva ma anche effettiva, da un lato la patata bollente deve passare tra le mani del ministro dell’Interno Priti Patel che deve approvare e firmare l’atto,  e dall’altro anche il team difensivo di Assange ha tempo fino al 18 maggio per contestare la sentenza del magistrato e fare appello.

Ironia del caso, Priti Patel, secondo Matt Richard di Declassified Uk, non sarebbe un incontro né molto felice e nemmeno forse tanto casuale sul cammino di Assange. La donna infatti sarebbe stata consulente per una lobby di estremisti che ha attaccato Julian Assange per circa un decennio nei media britannici. Priti Patel per l’esattezza avrebbe avuto legami con la Henry Jackson Society, una società inaugurata nel 2005 che non ha mai voluto rivelare quali fossero i nomi dei propri fondatori. La HJS, una lobby strettamente legata alla CIA con la quale tra l’altro si scambiava anche gli ex dirigenti a fine mandato, che secondo i documenti di Richard avrebbe pagato la donna per volare a Washington e per partecipare ad un programma di sicurezza tenutosi al Congresso americano, di non si sa quale natura.

Ecco che Julian “Ulisse” Assange si trova a questo punto tra Scilla e Cariddi, due mostri diversi ma solo nell’aspetto: da una parte volare in America e trovare la CIA ad attenderlo all’aeroporto, la stessa agenzia di intelligence che ha perseguitato l’uomo e che ne avrebbe orchestrato anche l’assassinio, dall’altra rimanere in UK però sempre in balia della CIA per mano della Patel.

Pare proprio che il ritorno a Itaca passi per forza di lì e che in un modo o in un altro Assange debba confrontarsi con il suo storico nemico.

Speriamo la traversata produca meno danni possibili.

MARTINA GIUNTOLI

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