La questione Evergrande, la Lehman Brothers cinese, sembra non conoscere requie. Ieri la società di consulenza tedesca DMA aveva chiesto formalmente la bancarotta per via della scadenza dei termini di un mese per il pagamento dei debiti, ha evitato ancora una volta il fallimento in zona Cesarini.
Tutto tarallucci e vino, quindi? Non diremmo: innanzitutto è la terza volta in un mese che evita il fallimento, e stavolta quando pareva già cosa fatta. Poi, come scrive Reuters, Evergrande ha rifiutato di rispondere riguardo il pagamento dell’ultimo coupon.
Nonostante il sollievo della Borsa di Hong Kong, che oggi è passata al rimbalzo i guai paiono non essere finiti.
Innanzitutto ci sono altre scadenze da onorare: il prossimo 28 dicembre il colosso dovrà onorare i i coupon sui bond al giugno 2023 e 2025 per complessivi 255 milioni di dollari. Ricordiamo che la passività di Evergrande ammonta a 305 miliardi, e già stavolta si era oltrepassato quasi il periodo di tolleranza per il pagamento dei debiti. Standard and Poors comunque avverte del rischio contagio. Ma ci vogliamo fidare di Standard and Poors che dava la tripla A a Lehman Brothers?
In realtà Evergrande è solo la punta dell’iceberg di una malattia nell’economia cinese, una bolla immobiliare di cui si parlava già ai tempi del fallimento di Lehman Brothers, quando era l’economia cinese ad apparire solidissima.
Dopo Evergrande abbiamo il caso Kaisa, il secondo più grande debitore cinese dopo Evergrande che, come Evergrande, “potrebbe non essere in grado di ripagare i debiti in tempo” stando a quanto scrive Standard and Poors. E questo “in tempo” significa domani.
Abbiamo già avuto dei veri e propri fallimenti lo scorso mese, come quello di Sinic. Dietro Evergrande, la più grossa e più indebitata compagnia cinese, ci sono tante piccole Evergrande.
Ma cosa vuol dire questo? L’economia cinese di questo periodo resta un mistero. Diciamo che il motto che Churchill coniò per la Russia, ovvero “un indovinello, avvolto in un mistero all’interno di un enigma” forse si attaglia meglio alla Cina, una delle culture più impenetrabili del mondo.
La Cina era parsa la nazione che si era meglio ripresa dalla crisi del Covid. Il guaio Evergrande e le altre ha messo in serio dubbio la questione: l’economia cinese ha subito un forte rallentamento anche a prescindere da Evergrande. Un rallentamento in realtà iniziato qualche tempo prima della crisi pandemica: anzi la pandemia era apparsa talmente provvidenziale per Pechino da risultare sospetta. Ora siamo punto e a capo. E anche a causa delle politiche di Xi (un neomaoista che ha in parte rinnegato le riforme di Deng Xiaoping) si teme una crisi anche per le grandi compagnie di e-commerce come Alibaba o le compagnie di High-Tech come Tencent.
Quindi non solo Evergrande e non solo il settore immobiliare. Certo che la bolla immobiliare cinese è spaventosa. Un osservatore attento poteva prevedere la crisi immobiliare cinese già in tempi non sospetti, dalla proliferazione di città fantasma in Cina e non solo.
Cosa potrebbbe voler dire una crisi economica cinese? Dal 2008, quando la crisi economica americana esplose, la Cina è stata vista come la “locomotiva del mondo”. Il modello cinese piaceva, e non sempre per nobili motivi: piaceva l’idea della “manodopera a basso costo” ovvero di un lavaoro schiavile (ironico in un Paese ufficialmente comunista) dove le condizioni degli operai erano talmente disumane da indurre al suicidio ma era molto lucrativo per il “padrone”, specie per alcune aziende come la Apple. Piace il modello politico totalitario, che si cerca di importare da noi con la maschera del green pass, che altro non è che la finestra di Overton verso il credito sociale. Ora il giocattolo pare rotto. E le conseguenze sono che gli Stati Uniti, legati a doppio filo all’economia cinese, potrebbero finirne distrutti a loro volta in una sorta di mutua distruzione assicurata economica. E con essi l’economia mondiale. Forse tutta la manfrina su Taiwan non è che la scusa per una guerra come nel 1939, in piena crisi economica mondiale?
La prospettiva pare apocalittica, ma forse sarà inevitabile. Per ricostruire sulle macerie morali e materiali di un mondo che, da Pechino a New York, era oramai un malato.
ANDREA SARTORI