La vicenda del fondatore di Wikileaks, Julian Assange, pare proprio non avere fine, o per lo meno, non quella inizialmente sperata. Dopo il primo verdetto del 4 gennaio 2021 , secondo cui il Tribunale di Giustizia di Londra aveva rigettato la richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti, oggi invece, arriva il verdetto del processo d’appello, in perfetto orario, poco prima delle 10,30 ora locale (11,30 italiane) e la notizia si abbatte sui manifestanti davanti al tribunale come un vero e proprio tsunami: Assange estradato.

Per mesi si è dibattuto sulle sue condizioni psicofisiche, sottolineando spesso il pericolo di una sua eventuale estradizione, poiché ritenuto soggetto fortemente incline al suicidio.  Da un lato la possibilità recentemente concessa dalla corte di sposare la sua fidanzata in carcere aveva rassicurato gli animi dei sostenitori, i quali per diverso tempo hanno onestamente temuto il peggio visto che da tempo Assange non si faceva vedere in telecamera.

Nel tempo, i sostenitori del giornalista ci hanno abituati a guardare alla vicenda da un unico punto di vista:  Libertà  per Assange e no all’estradizione. Cose con cui, se prese tout court, si può essere solamente d’accordo. Oggi invece che è arrivata la doccia fredda è opportuno non disperare e fare un paio di considerazioni non di poco conto.

Quando Assange iniziò la sua carriera da spericolato giornalista fondando la piattaforma  internet nel 2006, l’establishment americano era nel pieno assoluto delle sue forze. GW Bush era arrivato quasi a fine mandato e Barack Obama si preparava in staffetta per restare al potere insieme a Joe Biden e Hillary Clinton per i successivi otto anni. Nessuno degli uomini di potere sopra menzionati avrebbe mai tollerato di avere un uomo come Assange che indagasse e pubblicasse le loro magagne.

La CIA e tutto il comparto della vecchia guardia si adoperò pertanto non poco per zittire il giornalista applicando nei suoi confronti quanto di più repressivo potesse esistere, non a caso si è recentemente parlato di un piano che qualcuno avrebbe avuto in mente per ucciderlo e quindi per farlo tacere per sempre.

Ma allo stato attuale delle cose,  siamo ancora  davvero sicuri che la sua estradizione sia una cattiva notizia? Ad oggi sappiamo che quello stato profondo che lo voleva morto e fuori dai giochi non appare più così concretamente forte e tale da difendere se stesso come quando il giornalista cominciò la sua carriera.

Quasi tutti i componenti della vecchia guardia sono ormai fuori  dai palazzi del potere già da qualche tempo, e lo stesso pubblico americano ha negli anni, specialmente gli ultimi due, affrontato grandi prove di consapevolezza che difficilmente lo porterebbero ad accettare un esito negativo nel caso Assange venisse condannato.

Pertanto, nel caso di un suo ipotetico processo, ove, lo ricordiamo, rischierebbe  fino a 175 anni di carcere se ritenuto colpevole, dobbiamo temere il peggio? Siamo così sicuri che invece non sia l’occasione che Julian aspetta da anni per poter spifferare tutto davanti ad una corte?  Assange conosce meglio di qualsiasi altra persona lo stato profondo, poiché lo ha indagato prima e più di chiunque altro. Questo gli ha permesso di trovare contenuti (si ricordi quanto sono state importanti le lettere della Clinton nella  campagna vittoriosa  di Trump nel 2016), che nel tempo hanno segnato la storia della politica americana e internazionale.

In buona sostanza quella che sembra una condanna a morte, potrebbe essere davvero l’ulteriore mossa boomerang del deep state americano e internazionale che invece di uscirne fortificato,  colpirebbe ancora una volta se stesso, e si avvicinerebbe a grandi passi alla sua distruzione definitiva.

MARTINA GIUNTOLI

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