Assistiamo sgomenti e impotenti a una nuova evoluzione del nostro mondo orwelliano: lo stupro virtuale. Una ricercatrice ha denunciato di “essere stata condotta in una stanza privata e violentata” sulla piattaforma Horizon World appartenente al gruppo Meta. E non è nemmeno il primo caso su Horizon World. Abbiamo ad esempio quello della psicoterapeuta londinese Nina Jane Patel che sostiene di essere stata “accerchiata da avatar maschili che l’hanno sottoposta a una violenza di gruppo” a dicembre 2021.
La ricercatrice vittima dello “stupro” più recente racconta invece ci fornisce un racconto ricco di dettagli che, senza sminuire lo shock, sono più interessanti della “violenza in se stessa”. Ecco i particolari. “È successo tutto così in fretta che mi sono sentita come dissociata. Una parte del mio cervello si chiedeva cosa diavolo stesse succedendo, un’altra diceva che quello non era il mio corpo reale”. Ecco il punto: non era il corpo reale. Altro particolare che emerge dal racconto della donna: un avatar era lì a godersi lo stupro “bevendo vodka virtuale”. Che sapore può avere una vodka virtuale?
Internet non è né buono né cattivo: è uno strumento. Usato correttamente può portare l’utente all’accesso ad una serie di informazioni difficilmente raggiungibili solo grazie a libri e giornali. Ma il lato oscuro è questo: la dissociazione dalla realtà.
Di certo i fatti accaduti non sono “meno gravi” di uno stupro reale. Quello che emerge è che certamente quelle persone che hanno usato avatar per far violenza ad una donna hanno rivelato la loro parte più profonda: lo avrebbero fatto davvero se non avessero avuto timore di un’incriminazione nella vita reale. Dall’altra parte però non possiamo non notare la “dissociazione” tra vita reale e vita virtuale. Il rischio di considerare il virtuale più “reale” del reale.
Tutto questo lo stiamo già sperimentando con la censura su Facebook che applica al virtuale “sanzioni” della vita reale. Ma il salto che stiamo vedendo è enorme. Si arriva a parlare di “vodka virtuale” e di “stupro virtuale” oltre che di “sesso virtuale”. Di fatto fantasie che avvengono tramite gli avatar, termine ripreso dell’Induismo che indica le incarnazioni del dio Visnu ma che ora indica delle riproduzioni virtuali di persone reali.
“Voglio restare qui/chiuso nella mia stanza/dita abili per/accarezzare i tasti/come corrono/più svelte che/datemi un illusione/gode così/la mia generazione, ma/voglio bruciare la voglia che è dentro di me” questo il testo di un brano dimenticato ma profetico dei Timoria uscito nel 1995 ma intitolato “2020” (è abbastanza impressionante anche l’indicazione dell’anno, quello del fare tutto a distanza) in cui si immagina il sesso telematico. Ecco, ci siamo arrivati, e proprio negli anni ’20 del XXI secolo.
Siamo quindi arrivati al “crimine virtuale”. E siamo certi che il trauma sia reale. Ma questo significa che oramai la nostra realtà è stata dissociata e, come moderno don Chisciotte telematici, non siamo più in grado di distinguere reale da virtuale, i mulini a vento dai giganti.
E anche le nostre emozioni stanno diventando virtuali. Un salto antropologico molto preoccupante che viene implementato da queste multinazionali dell’illusione. Oramai sono comuni le persone che non interagiscono con l’interlocutore reale davanti, ma stanno chine a interagire con un avatar. Questo, sta diventando il vero oppio dei popoli.
ANDREA SARTORI
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