Quando Marshall McLuhan sosteneva che «il medium è il messaggio» intendeva dire che l’introduzione di un nuovo strumento di comunicazione, o di una nuova tecnologia, aveva la capacità di alterare la struttura neurovegetativa del Corpo Sociale, ed era perciò esso stesso il messaggio e non già il mero contenuto che – banalmente – veicolava.

La tecnica della stampa (ma prima ancora la scrittura) per esempio, andò a modificare la rete neuronale del Corpo Individuale – ergo Corpo Sociale – spostando la percezione globale dal senso fino all’epoca privilegiato – ossia l’udito – fino alla vista. Prima infatti era abitudine raccontarsi storie in cerchio attorno al fuoco. La memoria individuale e collettiva era così assai sviluppata proprio in virtù dell’allenamento a tramandare il sapere attraverso l’oralità, attraverso la voce. La voce, e per estensione il suono, la phoné – oggi considerati effimeri, sciacquati via nell’oblio del cloud – veniva invece registrata con facilità dalle menti che erano preparatissime a riceverla, naturalmente predisposte all’arte mnemonica. Una volta disabituata la mente a memorizzare, eccola impigrirsi irrimediabilmente, depotenziarsi, rattrappirsi su un piano tanto individuale quanto, di conseguenza, complessivo.

Ed è qualcosa che ha coinvolto l’umanità tutta, alterando perfino i processi di aggregazione sociale: non più in cerchio attorno al fuoco, né più cacciatori e raccoglitori, ma stanziali, posizionati in file parallele, schematiche, magari in palazzi e città perpendicolari, criptando i volti, il suono e la memoria. Scorporandosi e alienandosi. Senza chiudere gli occhi. Senza ascoltare nemmeno più la propria interiorità.

Ogni nuovo strumento impatta irrimediabilmente il nostro modo non solo di concepire, ma di percepire il mondo tutto. Questa è stata la grande intuizione di McLuhan.

Parte preponderante del profondo cambiamento epocale che stiamo vivendo – le evidenti discrasie, le contraddizioni, lo scollamento tra Uomo e Natura, già in fieri da secoli ma ora giunto all’acme parossistico – non è che conseguenza dell’introduzione di nuovi strumenti che il Corpo Sociale – estensione di quello  individuale – deve abituarsi a gestire riplasmando il proprio apparato neurovegetativo.

Accade nel senso di un detrimento, un diminutivo, sottraendo via via potere sul mondo circostante e fiaccando l’attitudine al controllo di ciascun essere umano.

Il rischio è quello di un ulteriore mutamento antropologico profondo, che faccia sbilanciare quel già precario equilibrio tra Uomo e Natura verso la creazione dell’Homo Novus, di un Uomo Sottratto: in ultima sostanza un consumatore e non un creatore, un fruitore non più in grado di gestire il proprio posto nel mondo, esposto alla pericolosa perdita di autodeterminazione che stimola, in prospettiva, l’insediamento di regimi totalitari che si sostituiscono a mezzo delega alle funzioni decisorie del singolo e della collettività. Un mondo che potremmo idealmente definire come la sintesi perfetta, il sunto più riuscito, fra la coercizione descritta in 1984 da George Orwell e l’euforia autoaberrante di Brave New World di Aldous Huxley.

Alla luce dell’introduzione di nuovi e potenti strumenti di comunicazione di massa, di tecnologie sempre più pervasive e ventrali, della smaterializzazione del sapere e della delega a ricordare, de facto, che concediamo al cosiddetto cloud,  ebbene: una riflessione seria, radicata e profonda sull’opportunità di tornare a usare dispositivi tattili, di mettere al centro della prassi quotidiana attività manuali, terrene – in buona sostanza vive – pare davvero non solo necessaria, ma persino urgente.

Si tratta in misura preminente e nient’affatto peregrina – tra le altre cose – di tornare a dare importanza al ruolo dell’Arte e alla figura dell’artista. Recuperare un sano appetito verso la produzione artistica, culturale, immaginifica e letteraria, consentirebbe di riappropriarsi verosimilmente non solo dell’intuizione, ma anche della capacità di ragionamento critico complesso. D’altro canto è lo stesso McLuhan, nel suo Understanding Media, a discutere sul fatto che gli artisti

«[…] raccolgono il messaggio della sfida culturale e tecnologica decenni prima che essa incominci a trasformare la società». E ancora che «l’artista è l’uomo che in qualunque campo, scientifico o umanistico, afferra le implicazioni delle  proprie azioni e della scienza del suo tempo. È l’uomo della consapevolezza integrale. Egli può correggere i rapporti tra i sensi prima che i colpi di una nuova tecnologia abbiano intorpidito i procedimenti coscienti. Può correggerli prima che cominci il torpore e l’annaspare subliminale».

Una fruizione consapevole e interessata dell’Arte, figlia di un sano e curioso appetito; una rabdomantica interconnessione con le cose del mondo, allenando l’intuizione, il senso del bello, la pratica manuale: questo, a mio modo di vedere, è l’orientamento che l’ultimo intellettuale, l’ultimo artista, l’ultimo uomo, deve mirare a concretizzare per non essere fagocitato – e non far fagocitare l’Umanità – dalla riplasmazione prossima ventura. Non più banderuole che seguono l’ultimo vento, ma individui numinosi e catafratti, centrati e coscienti. In ultima sostanza: uomini liberi. Liberi di essere uomini.

URIEL CRUA

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