A scuola ci avevano insegnato che ci sono sempre almeno due modi di vedere le cose: devono esserci, per forza. Dipende dal punto di vista, dall’osservatorio da cui ci si guarda attorno. Ne dà una dimostrazione plastica Robin Williams nei panni del professor Keating, nella pellicola-capolavoro di Peter Weir, “L’attimo fuggente”. Insegna ai ragazzi a salire in piedi sui banchi: da là sopra, tutto sembrerà improvvisamente diverso.
Non a caso, omaggiando l’insegnante ribelle, sarà proprio quel gesto – arrampicarsi sui banchi, sfidando l’autorità scolastica – a unire gli allievi (quasi tutti) nel gran finale del film. Apoteosi: il trionfo emozionante della giustizia, il valore del coraggio e del sacrificio, la necessità di battersi per un ideale. La passione politica che nasce innanzitutto dalla solidarietà umana. Quella che sembrava tecnicamente estinta, nell’Italia plumbea del Green Pass e dei medici sospesi dall’esercizio della professione.
CHI HA SUBITO LA DITTATURA, CHI SI STA RISVEGLIANDO
L’uragano sociale appena attraversato, una specie di incubo distopico vissuto ad occhi aperti, ha messo in luce la virtuale esistenza di almeno tre Italie. La prima, fedele alla linea, è ancora pronta a obbedire, a scattare sull’attenti: chi comanda ha sempre ragione. E se qualcuno non lo accetta e subisce le conseguenze della sua disobbedienza, ben gli sta. Il ribelle non può più sedersi con gli altri a bere un caffè, o pagare un bollettino postale? Non gli è più concesso neppure di visitare all’ospedale un anziano parente in fin di vita? Pazienza, se l’è cercata. Giusto che subisca il castigo.
La seconda Italia è forse quella felicemente immortalata da Alberto Sordi e Paolo Villaggio, tra luci e ombre: private nobiltà e pubblici opportunismi. Quest’altra Italia non ha più fiducia nel vertice della piramide, ha smesso di prendere per oro colato la narrazione del telegiornale. Però intanto si piega, preferisce fare buon viso a cattivo gioco: càlati, giunco, che passa la piena. Sì: il potere ha perso l’onore (se mai l’aveva avuto). Ma si pensa che valga la pena scommettere, ancora, nella possibilità di modificarlo dall’interno, l’establishment, correggendone gli aspetti peggiori.
LA TERZA ITALIA, RIBELLE E SABOTATA DAL GRILLISMO
A questa seconda Italia hanno parlato gli aspiranti riformisti degli ultimi decenni, a partire dal primissimo Berlusconi, rivelatosi “solo chiacchiere e distintivo”. Tutto fumo e niente arrosto, come i suoi emuli e le loro epiche imprese: le fanfaronate di Renzi, il bellicismo solo verbale di Salvini. Ora siamo all’ultimo capitolo, Giorgia Meloni. Stessa storia: abbiate fiducia in me, e il vostro atto di fede sarà ricompensato. Già se ne vedono i risultati: solo genuflessioni. La premier si inchina al cospetto di Lady Ursula. E persino davanti al grottesco Zelensky.
La terza Italia, infine, è quella che coltiva sogni di tipo rivoluzionario, almeno sul piano psicologico. Gran maestro meta-politico di questa strana accademia, l’illusionista Beppe Grillo. Bravissimo, ieri, nel maneggiare orizzonti: cambiare tutto (per non cambiare niente, come avrebbe detto il Gattopardo). Ma stavolta con una conseguenza catastrofica: il lutto, non facilmente smaltibile, della grande disillusione. Perché il tradimento brucia, avvelena i pozzi, estingue le radici della speranza. Disperde e spegne, scoraggia. E gonfia, comprensibilmente, l’oceano del non-voto.
POLITICA E SENTIMENTI, VIA D’USCITA CERCASI
Proprio la terza Italia sta diventando il vero oggetto del contendere: una prateria sconfinata di elettori delusi. E al tempo stesso, un grande laboratorio di pulsioni alternative. Associazioni, portavoce, opinion maker. Comunità separate, scelte personali autonome, gruppi di acquisto solidale, iniziative culturali. Fioriscono anche nuovissimi radicalismi, spesso declinati in chiave spiritualistica. Spuntano interpreti genuini, accanto a qualche immancabile incantatore. Ma non importa: quel che conta è che il pubblico è ormai accomunato da una diffidenza molto ostinata, nei confronti di qualsiasi nuovo tentativo politico.
Manca un vettore prevalente, nel quale veicolare i nuovi linguaggi. Ieri accadeva con la neolingua grillina. Oggi invece la buona novella (ciò che non siamo, che non vogliamo) viaggia in ordine sparso, in piena libertà, nel mare magno del web e dei social, dei raduni spontanei, delle conferenze. Si tratta di un mondo piuttosto vasto, popolato da milioni di persone e strettamente monitorato dagli addetti al consenso. Prontissimi, all’occorrenza, anche a supportare le voci più strampalate, idonee a screditare l’intero universo retrostante.
COVID, L’IMPERDONABILE FEROCIA DEL POTERE
Se c’è un messaggio che arriva forte e chiaro, dalla galassia dell’anti-mainstream, è il seguente: la dimostrazione di spietata ferocia messa in atto con l’Operazione Corona ha superato ogni decenza. Ha oltrepassato una linea rossa, ha inferto un vulnus non più sanabile. I decisori hanno varcato un Rubicone sacrilego: hanno apertamente calpestato la dignità umana. L’hanno fatto in modo sfrontato e violento. Hanno davvero profanato il tempio dell’umanità, i suoi diritti universali. E chi si è prestato a diventare complice di un tale abuso, di una simile enormità storica, moralmente non fa più parte del consesso civile al quale si poteva immaginare che, prima, appartenesse.
Il fardello residuale, che resta sempre sulla groppa delle vittime, è proprio la rabbia: l’avversione, addirittura l’odio. Scrive Primo Levi, in una pagina memorabile sulla vergogna della tortura: già al primo schiaffo, la vittima perde – per sempre – qualsiasi fiducia nell’umanità. Si tratta di una vera e propria tragedia. Come quella appena vissuta dagli italiani, tutti quanti. Appurato che la condotta sanitaria del governo era semplicemente folle, la domanda è terribile: quante migliaia di persone sarebbero ancora tra noi, oggi, se fossero state curate tempestivamente e non abbandonate a se stesse, cioè al non-protocollo della Tachipirina e della “vigile attesa” dell’aggravamento spesso irrimediabile?
L’IMBARAZZANTE SILENZIO DEGLI INTELLETTUALI
Vanno emergendo evidenze incresciose e sempre più palesi, incluse le “morti improvvise” che si temono correlate con l’inoculo dei sieri Covid. A questo spettacolo imbarazzante guarda la terza Italia – quella che ha smesso di votare – ma anche l’altra Italia, la seconda, quella che magari ha accettato di farsi somministrare un paio di dosi pur di ottenere il lasciapassare verde. Queste due Italie ancora non si parlano, direttamente: ma in fondo vogliono le stesse cose. E stanno anche scoprendo, insieme, quanto sia disonesta e insincera la narrazione dell’orrenda crisi che ha portato alla guerra in Ucraina, al caro-energia, al ritorno dello spettro nucleare che incombe sull’avvenire dei terrestri.
Uno dei grandi handicap di questa stagione è anche il silenzio assordante degli intellettuali: in troppi hanno taciuto sugli abusi di ieri, in troppi si allineano alla narrazione bellica di oggi. E così mancano ponti, in grado di unire le due Italie non dormienti. Da un lato, serpeggia l’illusione romantica che si possa fare a meno della politica: ma se non te ne occupi, avvertiva Mario Capanna, sarà comunque lei a occuparsi di te. Creare un altro universo, da zero? Gli ultimi che ci provarono seriamente, a sventolare quella bandiera (“un altro mondo è possibile”, era lo slogan dei NoGlobal) furono massacrati dai reparti antisommossa nelle strade di Genova, luglio 2001. La polizia era italiana, ma gli ordini – ricordano analisti come Franco Fracassi – partivano, tanto per cambiare, da oltreoceano.
FERITI E DISPERSI, I SUPERSTITI DELLA “DITTATURA”
Quella non era ancora un’Italia divisa in tre: la maggioranza era abituata ad ascoltare, persino in televisione, autorevoli voci dissonanti. Nel giro di vent’anni, sembra che un’intera civiltà sia stata rasa al suolo: oggi sarebbe impensabile vedere, in prima serata, qualcuno che dica le cose come stanno. Inimmaginabile, poi, l’apparizione di qualche autentico eretico: sono stati tutti banditi, cancellati. Buttati fuori, espulsi dal sistema. Costretti a sopravvivere in clandestinità: come il grande Giulietto Chiesa, uno dei primi a denunciare ad alta voce il pericolo dell’immane truffa epocale, la spaventosa devastazione in arrivo. A tutti i livelli: informativa, cognitiva, psicologica, bio-politica.
Rottami doloranti, frantumi. Parti lese, milioni di sopravvissuti pieni di rancore. Questo lo scenario attuale. Segnato da esasperazione e delusione, sogni infranti, riflessi estremistici e inevitabili velleitarismi. Il rovescio della medaglia, forse, è una specie di dono: perché il male, quando esplode dopo aver gettato la maschera, sveglia i dormienti e apre loro gli occhi. Accresce la consapevolezza di tanti: e così diventa molto più difficile ingannarli ancora. Certo, ci si sente fragili e isolati. Si è dispersi, frammentati e divisi. Spesso ancora feriti, avvelenati dal rancore.
L’ATTIMO FUGGENTE: IL DOVERE DI UNIRE LE PERSONE
A chi serve, un’Italia spezzettata? A chi intende dominarla, ancora e sempre, scavando solchi profondi tra gli uni e gli altri. Ecco perché diventa determinante la vocazione di chi sa parlare a tutti, senza pretendere di fondare circoli esclusivi, ma senza neppure illudersi di poter tenere insieme, da subito, sensibilità tanto differenti. Conta la capacità di aggregare, di convincere: non per fare cassa, ma per arrivare finalmente da qualche parte. Insieme, se possibile. In un posto più bello di questo, dove ristabilire almeno il perimetro di un comune sentire in cui viva stabilmente un’umanità riconoscibile, in grado di porsi domande sul proprio futuro.
A volte la storia può regalare resurrezioni insperate. Urgono gesti eloquenti, il più delle volte: e infatti abbiamo visto anche quelli. Atti di eroismo personale, di sacrificio. Come in quel film, a tanti è toccato salire in piedi sui banchi: per rivendicare il diritto alla giustizia (e l’accesso al bene più prezioso, di cui l’attuale potere ha così tanta paura: la verità). Però i gesti da soli non bastano: perché puoi sempre immaginarlo, un mondo migliore, ma poi servono pensieri lunghi per farlo crescere.
QUANDO LE EMOZIONI NON BASTANO PIÙ
Serve anche molta pazienza: per imparare a usare gli strumenti necessari a costruirlo, il mondo che vorresti. Significa saper concepire il tempo come una materia tutta da plasmare, e la politica come patrimonio e come autodifesa democratica. Fare tesoro delle sciagure comuni, senza smettere mai di ragionare e dialogare. Sapendo che chi ancora non riesce a comprenderti, potrebbe farlo domani: a patto che tu abbia parlato chiaramente, evitando di ricorrere a facili suggestioni e a parole d’ordine gratuitamente rassicuranti.
Da decenni, i cacciatori di consenso si limitano a inseguire le emozioni del momento. Per questo non durano che una sola stagione: non hanno nulla di serio da offrire, nessuna visione prospettica. È la goccia a scavare la roccia? Chi ha qualcosa da dire non dovrebbe preoccuparsi del seguito immediato che riscuote: l’approvazione sarebbe una conseguenza naturale, magari alla distanza. L’importante è che si agisca per servire una convinzione da condividere, non un progetto egoistico o meramente elettoralistico.
Se uno è sincero, lo si sente: non è mosso dalla tentazione di fare il pieno di voti. I suoi contenuti, semplicemente, li offre. E se parla in quel modo, se ripete cose scomode, è perché non potrebbe davvero farne a meno: questo, alla lunga, permette di separare il grano dal loglio. Gli smarriti, i disorientati, generalmente premiano chi è pronto a dire loro che sono dei benemeriti, addirittura dei martiri. È una questione umanissima, il conforto. Ma poi? Senza una vera strada da percorrere, un’alternativa solida e non solo emotiva, capace di confrontarsi fino in fondo con la dura realtà, la storia è destinata a ripetersi. Anche nelle sue pagine più buie.
GIORGIO CATTANEO