Non c’è niente di giusto o inclusivo nel permettere a un atleta di corporatura maschile di competere contro le donne.
Lia Thomas è diventata la prima atleta dichiaratamente transgender a vincere la maggiore onorificienza nel nuoto statunitense universitario lo scorso giovedì, con la sua vittoria nelle 500 yard stile libero femminili.
Alcuni guardano alla sua vittoria come il trionfo massimo dell’inclusione. Ma a ben pensarci non c’è niente di giusto o inclusivo nel permettere a Thomas di competere insieme a (e vincere contro) nuotatrici nel campionato femminile NCCA.
Thomas ha tutto il diritto di ricevere il rispetto e la dignità che qualsiasi altro membro della società ha quando si tratta di esprimere la propria identità. Ma cellule, ormoni e muscoli non hanno niente a che vedere con i pronomi scelti. La superiorità fisica di Thomas rispetto alle sue compagne concorrenti deriva dall’essere nato maschio e dal raggiungimento dello sviluppo dopo la pubertà. Ciò significa che ha chiaramente un vantaggio ingiusto rispetto alle nuotatrici.
Molte donne sono comprensibilmente infastidite dal fatto che qualcuno con il vantaggio di avere un corpo maschile possa strappare titoli a giovani donne che si sono allenate così duramente per arrivare alla vittoria. Prima che decidesse di cambiare sesso, Thomas era un nuotatore maschio medio, classificatosi al 554° posto nella competizione maschile di stile libero. Come donna transgender, invece, Thomas ha appena battuto Emma Weyant, vincitrice di una medaglia olimpica.
Ma il vero scandalo non è che Thomas sia in competizione con donne che di fatto non possono eguagliarla fisicamente: è la risposta dei commentatori a cui normalmente piace sparlare dell’importanza dell’equità nello sport. La difesa dell’inclusione di Thomas nella divisione femminile da parte dell’editorialista del Washington Post Sally Jenkins si è aperta infatti con la bizzarra dichiarazione: “Odio dirvelo, ma in un certo senso sono tutti trans”. Presumibilmente la prossima colonna di Jenkins sosterrà la fine dello sport diviso per sesso nella sua interezza.
La giornalista sportiva Louisa Thomas ha scritto sul New Yorker che c’era “qualcosa di assurdo” nei “politici conservatori che non hanno mai mostrato alcun interesse a sostenere gli sport femminili” che improvvisamente “facevano la morale sull’importanza del nuoto femminile universitario”. Eppure nessuno, nonostante tutto, sembra disposto ad ammettere l’assurdità dei commentatori sportivi, che sono d’accordo nel discutere dell’ingiusto vantaggio ottenuto dagli atleti che assumono droghe, mentre chiudono un occhio sull‘ingiusto vantaggio di avere un corpo maschile in una competizione femminile.
Nella maggior parte dei settori della vita, la differenza sessuale conta molto poco. Nei regni della vita sociale, del lavoro, della politica o delle relazioni, le somiglianze universali tra uomini e donne superano le nostre differenze. Tuttavia, il suggerimento che il sesso biologico non abbia mai importanza è ridicolo: prova a chiedere a un uomo di spingere fuori un bambino o di riempire un reggiseno.
Nello sport, anche la differenza fisica conta. È per questo che abbiamo categorie, uomini e donne, bambini e adulti, olimpionici e paralimpici, nelle diverse competizioni. Altrimenti vincerebbe ogni volta soltanto l’uomo più grande, più forte e robusto.
Allora perché abbiamo così paura di definire ingiusta l’inclusione di Thomas nello sport femminile? Perché l’ideologia trans è diventata quasi impossibile da criticare. Come possono fare una conversazione serie le donne quando ci sono politici come il leader laburista britannico Keir Starmer che affermano che “non è giusto” dire “solo le donne hanno una cervice“?
Come fanno le donne a sollevare preoccupazioni sul chiaro e ingiusto vantaggio di Thomas quando i loro critici le liquidano semplicemente come bigotte?
Non si tratta di Lia Thomas, l’individuo: questo sì che sarebbe ingiusto.
No, dovremmo invece riservare le nostre critiche ai legislatori sportivi e ai loro sostenitori dei media. Hanno rinunciato all’equità e all’uguaglianza e, così facendo, hanno anche fatto morire lo sport femminile.
Di Ella Whelan, traduzione Martina Giuntoli