“Parole e frasi ci hanno calunniati o uccisi“. Così chiudeva Hemingway la sua poesia A certi bravi ragazzi morti, componimento breve, crudo nella sua essenzialità, che riprendeva le formule di propaganda con cui i giovani venivano trascinati in guerra e spesso alla tomba, accesi dalla bandiera del patriottismo, sventolata però dalla mano del profitto.
Ma Hemingway aveva visto il fronte. Nulla a che vedere con noi, venuti alla luce nella parte più fortunata del mondo, nella finestra temporale di più di settant’anni di pace.
Impossibile comprendere Hemingway e la durezza delle esperienze che hanno animato la sua penna, anche perché, come la propaganda in rete ha ben pensato di ricordarci più volte nella primavera del 2020, “ai nostri nonni hanno chiesto di andare in guerra, a noi di restare sul divano”.
Formula che si inserisce nel quadro dei frequenti riferimenti al linguaggio bellico da parte delle istituzioni e della stampa: “Siamo in guerra”, “Combattiamo il nemico invisibile”.
Nessuna sorpresa che la massa, già da tempo facile bersaglio di slogan e avvezza ad accogliere e ripetere tormentoni, abbia ceduto alle lusinghe di una comunicazione che suggeriva che stare sul divano a mangiare cibo spazzatura fosse un atto eroico e altruista. Chi non vorrebbe essere un eroe? E se per farlo si può star comodi a guardare una serie Netflix, be’, ancora meglio.
Eppure da qualche parte questo genere di mentalità deve affondare le radici. Come siamo arrivati a questo? Alle divisioni? Alla guerra fra poveri, tutti vittime, ma spaccati in due fazioni: la prima che urla contro il padrone e la seconda che urla contro la prima. Allora sì, parole e frasi ci hanno calunniati o uccisi. Uccisi intanto nella vita civile e sociale, esclusi e guardati a vista, stigmatizzati.
Poco prima dei mantra simil-bellici ci sono stati i DPCM, e prima ancora – andando indietro anche di qualche decennio – la costruzione di un linguaggio del mercato su cui la comunicazione di decreti, dirette e post filo-governativi si è appoggiata con facilità, ottenendo successo e adesione come nelle migliori campagne pubblicitarie.
Vogliamo qui riflettere sulle parole e sulle modalità comunicative utilizzate dalla stampa e dal governo, quelle parole che, specie ripetute come mantra, formano il pensiero.
Come dimenticare le prime esortazioni del governo Conte? Lavarsi le mani, non toccarsi il viso, la formula distanza-mascherina-igienizzante-amen. Le raccomandazioni igienico-sanitarie recitavano esplicitamente l’invito a coprirsi bocca e naso quando si starnutiva – e meglio, a starnutire in un fazzoletto – e a non usare in modo promiscuo bottiglie e bicchieri. La stampa, addirittura, non mancò di raccomandare agli italiani di non mettersi le dita nel naso. Ora, queste raccomandazioni sarebbero giustificabili, anche comprensibili, a una festa per un settimo compleanno. E invece sono state fatte a elettori e forza lavoro. Cosa succede quando un’istituzione si rivolge alla popolazione nelle modalità in cui ci si rivolge a un bambino?
Esiste una teoria psicologica che può aiutare a capirlo: è l’analisi transazionale, secondo cui nella personalità sono presenti tre “strutture”, il Bambino, l’Adulto e il Genitore, in equilibrio fra loro nell’individuo in salute, e che emergono anche in base al ruolo che si ha in una “transazione” (comunicazione fra individui). Non è azzardato mettere l’analisi transazionale in relazione con le strategie comunicative utilizzate poiché questa teoria psicologica, messa a punto da Eric Berne intorno alla metà del ‘900, è stata poco dopo banalizzata e semplificata dall’editoria divulgativa americana che ne ha fatto una teoria adatta alle strategie di marketing. Rientra quindi perfettamente nelle tecniche comunicative delle istituzioni, sempre più simili alle strategie di marketing – fino a iniziative tristemente comiche come “un panino per un vaccino” e altri esempi miserevoli.
Se l’istituzione si pone, nella transazione, nel ruolo di Genitore, è più probabile che il popolo si cali nel ruolo del Bambino.
Interessante è approfondire – sebbene non sia questa la sede per farlo, vi faremo quindi solo cenno – quali siano le tipologie di Genitore e quelle di Bambino, nelle loro manifestazioni positive e negative: il Genitore, secondo Berne, può essere normativo o affettivo. Il Genitore normativo, che nella sua manifestazione positiva guida e insegna, in quella negativa critica, impone, rimprovera, punisce. Ora, non è solo nella sanzione amministrativa che si vede la punizione del Bambino/popolo – sanzione che rientrerebbe nell’esercizio di norme, giuste o inique, costituzionali o no – ma nella stigmatizzazione dei “trasgressori” che ha serpeggiato e serpeggia nei media, e che ha portato ad esempio al fenomeno della delazione, atto di cui far sfoggio – si veda su tutti l’esempio di Alessandro Gassman, il più celebre fra tanti episodi – per compiacere il Genitore. Sembrerebbe che la massa si sia messa nella posizione di Bambino “adattato” (contrapposto al Bambino “naturale”) che nella sua manifestazione negativa si sottomette alle regole, quali esse siano, e subisce per farsi accettare.
E ancora, un altro aspetto della comunicazione pubblicitaria: qualunque spettatore avveduto ormai sa bene che gli spot non cercano più di venderci un prodotto decantandone la qualità. La pubblicità di un’auto non ci dirà che l’auto è efficiente, affidabile e sicura, ma cercherà di “venderci” la libertà, il successo e la sicurezza di sé; la pubblicità di pasta e di merendine non ci dirà che si tratta di prodotti gustosi e genuini, ma cercherà di venderci il calore del focolaio domestico; la pubblicità di uno yogurt cerca di venderci la bellezza e la forma fisica; quella di un profumo cerca di venderci la sensualità; quella di un prodotto per l’igiene della casa cerca di venderci l’illusione di avere più tempo libero.
Cosa c’è di diverso in una campagna vaccinale in cui non viene fornita al destinatario alcuna sicurezza o informazione sul prodotto in distribuzione ma viene invece “venduta” la convinzione di essere dotati di senno, di altruismo, di senso civico? È questo ciò che la popolazione sta acquistando: la convinzione di essere giusti, di essere “dalla parte dei buoni”. E in questo, c’è da ammetterlo, si tratta di un’operazione di marketing dal successo senza precedenti, nonostante le adesioni siano in calo, poiché non si sono mai visti “consumatori” così accaniti e così agguerriti verso chi non si è adattato all’acquisto – e chi lo sa quale sia per il consumatore il prezzo reale dei prodotti che crede gratuiti? – di questo nuovo status symbol, baluardo dell’integrità morale.
A fare buon gioco a questa campagna non sono solo le modalità comunicative adottate, ma anche le singole parole, di fatto parte integrante di tali strategie pubblicitarie.
Nonostante anche i media più seguiti, che hanno sostenuto e promosso le decisioni del governo Conte prima e del governo Draghi poi, ammettano apertamente – come gli stessi medici ospitati nel mainstream e le stesse aziende farmaceutiche che producono i vaccini per il SARS-CoV2 – che chi si è sottoposto all’iniezione non è immune né al contagio né alla malattia, si continua a usare la parola “immunizzati” in luogo di “vaccinati”. Poco importa che lo spettatore, il lettore o l’ascoltatore abbiano a disposizione l’informazione completa (o quasi), e cioè che questi vaccini non immunizzano, e che razionalmente possano processarla. Sul piano neuronale l’associazione vaccino-immunizzazione è sedimentata.
Una parola prima appannaggio del campo della fisica e di quello psicologico e ormai in voga anche fra le masse è senza dubbio “resilienza“. La resilienza è sulla bocca di tutti, come la “mano de Dios”, la testata di Zidane nei mondiali del 2006, le previsioni meteo e il fatto che non ci siano più le mezze stagioni. È entrata insomma nell’immaginario popolare e nel dizionario di uso comune. Ottimo, la popolazione ha imparato un concetto nuovo, è una buona cosa, giusto?
Sbagliato. Poiché la resilienza – in fisica la capacità di certi materiali di ritornare alla forma originaria – in psicologia è, per dirla in parole povere, la capacità di adeguarsi a un trauma. Non di resistervi, ma di trovare delle risorse interiori per venirvi a patti e delle strategie di adattamento. Certamente una dote che ha dei lati positivi, ed è di fatto una strategia di sopravvivenza, poiché permette all’individuo di non cedere al dolore cieco e di non lasciarsi piegare dalle avversità, ma davvero la resilienza va promossa in modo così capillare? La reazione a suon di canti alla finestra e di panificazione compulsiva rientra davvero in un adattamento salutare al trauma prolungato? O in tempi “normali” ci sarebbe sembrata quanto meno bizzarra, se non addirittura antisociale?
Una riflessione in merito sembra opportuna: il bambino è di certo resiliente più dell’adulto. Scevro da ogni esperienza e perciò da ogni possibile confronto con tempi definibili “di pace”, e caratterizzato da quell’egocentrismo – come sosteneva Piaget – che lo porta a non distinguere il proprio punto di vista da quello degli altri, il bambino può normalizzare il trauma, e laddove dovesse essere vittima di un evento traumatico o vivere un momento difficile, sarebbe più facile per lui che per un adulto credere che sia assolutamente normale, una situazione universale. Niente a che fare con la “nuova normalità”?
Peccato che poi, degli adolescenti e degli adulti che seguono una terapia psicologica, molti debbano vedersela proprio con i traumi infantili, quelli che un tempo li hanno visti resilienti. Quindi no, impossibile uscirne migliori, come hanno cercato di farci credere.
Ma nel frattempo, fra un canto al balcone – come non citare anche la saggezza popolare, col detto “uccellin che canta in gabbia non canta d’amore ma canta per rabbia” – e una panificazione, il trauma dell’isolamento nelle quattro mura, della comunicazione piena di terrore, del timore di perdere gli affetti e la salute, si era già insinuato in noi. Piaccia o no, eravamo diventati resilienti. Avevamo preso la forma del nostro dolore e cercavamo di trasformarlo in gioie effimere: pizze fatte in casa, serie Netflix, aperitivi su Zoom. Tutto questo mentre ci negavano la possibilità di acquistare una scatola di pennarelli per i nostri bambini chiusi in casa, poiché non erano beni “di prima necessità”. E ci sono cascati in molti, perché è vero, in quel momento era più facile essere resilienti e adattarsi che essere resistenti e impazzire dalla rabbia.
La rabbia ora, paradossalmente, è diretta ai resistenti, a chi ha rifiutato, sin dall’inizio o più tardi, di adattarsi al trauma e di indossare la veste della nuova normalità che ci hanno venduto. Sta di fatto, che come nel marketing, molti questa nuova normalità l’hanno comprata, e altri no.
L’elemento più tragico di questo susseguirsi di propaganda martellante – che ha coinvolto tutto: carta stampata, televisioni, radio, annunci sul web – che oltre ad alimentare la sensazione di panico e di emergenza contribuiva alla creazione, nell’immaginario comune, di un nemico – che solo per poco, pochissimo, è stato il virus, poi diventando il no-mask, poi il no-vax, oggi il no-green pass – è appunto la divisione in due fazioni: da una parte i “buoni”, coloro che aderendo alla narrativa dominante hanno “acquistato” senso civico e altruismo; e dall’altra i “cattivi”, che è lecito, anche in un momento storico che vuol essere politicamente corretto a tutti i costi e in cui millantare disgusto per ogni forma di discriminazione è un passepartout verso ogni angolo del paradiso, ghettizzare e insultare senza alcun riguardo, anche quando a prendere posizione contro le misure governative sono professori onorati e stimati fino a poco tempo prima.
È davvero più facile pensare che dieci milioni di italiani che hanno scelto di non farsi iniettare questo miracoloso ritrovato della scienza farmacologica, che centinaia di migliaia di persone che manifestano, e che una lunga serie di nomi importanti della medicina, della filosofia e della giurisprudenza abbiano perso il senno? Piuttosto che accettare che fra il bianco e il nero c’è un’ampia gamma di grigi?
Probabilmente sì, è più facile. Perché quando il prodotto è gratuito, probabilmente il vero prodotto che interessa al mercato sono io che lo sto provando. E ammettere questo, anche a se stessi, non deve essere una passeggiata.
La propaganda è riuscita negli ultimi decenni, con un’intensificazione rapidissima nell’ultimo anno e mezzo, a portare il divide et impera a un livello di raffinatezza a dir poco eccelso, fino al punto di avere una maggioranza della popolazione che si è fatta accanita sostenitrice della “nuova normalità” – e anche qui si potrebbe aprire un capitolo sul fatto che nel linguaggio del marketing “nuovo” e “bello” siano quasi sinonimi.
Vengono in mente le parole di Silvano Agosti, che in un’intervista radiofonica pronunciò quello che divenne poi celebre come “il discorso tipico dello schiavo“, un’aspra critica alla cultura capitalistica e soprattutto a chi vi si adattava passivamente – e anche questa volta, secondo la sempre valida logica “follow the money”, la situazione in cui versiamo non è forse una declinazione del capitalismo più sfrenato?
Ritroviamo ancora oggi nelle parole di Agosti molta verità, a partire dal concetto di normalità fino all’inconsapevole schiavitù:
Uno degli aspetti più micidiali dell’attuale “cultura” è di far credere che sia l’unica cultura, invece è semplicemente la peggiore. […] Allora, intanto uno non deve mettere i fiorellini alla finestra della cella nella quale è prigioniero, perché altrimenti anche se un giorno la porta sarà aperta lui non vorrà uscire. Deve sempre pensare con una coscienza perfetta: questi stanno rubandomi la vita […] mentre io sono un capolavoro il cui valore è inenarrabile. […] Certo, se ho il mitra alla nuca lo faccio, perché mi dico “Meglio leccare il pavimento o morire?”
Meglio leccare il pavimento.
Ma quello che è orrendo in questa cultura è che “leccare il pavimento” è diventata addirittura un’aspirazione.[…]
E alla replica di Fabio Volo, che lo stava intervistando e che commentò “Sì, va be’, ma ormai è irreversibile la situazione”, Agosti affondò:
Sì, tu fai giustamente un discorso in difesa di chi ti opprime perché è tipico dello schiavo.
Lo schiavo difende il padrone, mica lo combatte.
Perché lo schiavo non è tanto quello che ha la catena al piede, quanto quello che non è più capace di immaginarsi la libertà.
Ma rispetto a quello che tu mi hai detto adesso, quando Galileo ha enunciato che era la Terra a girare intorno al sole, ci sarà sicuramente stato qualcuno come te che gli avrà detto:
“Eh, certo… sono secoli che tutti dicono che è il sole che gira intorno alla Terra e ora arrivi tu a dire questa stronzata! Come farai a spiegarlo a tutti gli esseri umani?”
E lui: “Non è affar mio, signori…”
“Allora guarda, noi intanto ti caliamo in un pozzo e ti facciamo dire che non è vero, così tutto torna nell’ordine delle cose”.
Hai capito?[…]
Quindi, Signori miei, o ci si sveglia, o si fa finta di dormire, o bisogna accorgersi che siete tutti morti.