Ci hanno costruito intorno una società in cui apparire virtuosi, per quanto non escluda l’esserlo, lo supera di gran lunga in importanza.
Già, perché in questi nostri dimenticabili tempi moderni, nel “migliore dei mondi possibili”, le battaglie sociali e le campagne di sensibilizzazione si portano avanti così: a colpi di hashtag e di selfie.
Con un certo sgomento abbiamo infatti assistito all’ennesima campagna social vestita di una bandiera di sostegno e sensibilità rispetto al tema del momento. Questa volta il pretesto è rappresentato dalle donne afghane. L’hashtag scelto, #white4afghanwomen, è il vessillo della bontà e dell’impegno politico di celebrità del piccolo schermo o aspiranti influencer che dichiarano di esprimere vicinanza alle donne afghane attraverso la condivisione di una loro immagine vestiti di bianco. Un radicale e fondamentale aiuto nonché una svolta, insomma, per qualunque categoria in difficoltà.
L’iniziativa è partita da “Wall of Dolls“, movimento dietro l’omonima installazione permanente nata nel 2014 con l’intenzione di puntare i riflettori sul tema della violenza contro le donne. Ispirata a una tradizione indiana che vuole che una donna affigga al muro della sua casa una bambola ogni volta che subisce una violenza, l’idea di allestire un muro delle bambole fu portata da Milano a Roma, Genova, Venezia e altre città italiane. A tale progetto si riconoscono la forza dell’impatto visivo e la tangibilità dell’installazione, fattori che probabilmente possono davvero concorrere a generare una riflessione nel passante che si trovasse, anche per caso, a vedere il muro. Inspiegabile, invece, sotto il punto di vista dell’utilità sociale, la campagna sui social network, che va ad accodarsi ai vari #prayfor e #jesuis declinati di volta in volta con i nomi o toponimi agli onori della cronaca.
Per avere una prova dell’efficacia di questa iniziativa basta dare un’occhiata alle immagini e ai commenti. Sguardi languidi verso l’orizzonte o verso la camera, labbra schiuse, acconciature studiate, espressioni ammiccanti, pose provocanti, e naturalmente gli immancabili filtri leviganti. Un momento molto basso in cui la vanità – anche legittima, nello showbusiness – viene giustificata e nobilitata in virtù delle frasi scelte a corredo di questa sfilata di selfie: “Mi vesto di bianco, a sostegno di tutte le donne, le bambine, e le ragazze dell’Afghanistan”, “In bianco, pensando alle donne afghane”, “Mi vesto di bianco e stringo in un abbraccio virtuale le donne afgane”, “Un’azione a sostegno delle donne dell’Afghanistan: vestiti in bianco, simbolo di vicinanza a bambine, ragazze e donne, per non farle sentire sole”.
C’è da domandarsi quanto le donne afghane stiano beneficiando di questa iniziativa, delle labbra tumide e degli sguardi penetranti che rimandano ironicamente – ma non intenzionalmente, si spera – al personaggio hollywoodiano di Derek Zoolander, a cui si riconosce il merito, quanto meno, di essere fittizio, oltre che dichiaratamente una parodia.
Ma, essendo una campagna di sensibilizzazione, il cui scopo è in teoria quello di accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica, è giusto concederle il beneficio del dubbio e considerarne l’effetto sugli utenti del web, anche scegliendo di ignorarne l’inutilità per la categoria che si vorrebbe investire con questa ondata di “solidarietà”. E come farlo se non leggendo i commenti? “Bellissima”, “Sei bellissima”, “Bel viso”, cuoricini, molti cuoricini, “Buona domenica, baci”, “Quanto sei top”, “Wow, che splendore”, “Bello fuori ma soprattutto dentro”, “Sei stupenda baby“, “Sei un grande uomo, di forte sensibilità”.
Ebbene, il migliore dei mondi possibili ci ha donato Instagram. Un grande successo, almeno, risiede senza dubbio nel far comprendere, a chi ancora se ne stupisce, le ragioni della passività del popolo nell’accettazione di una serie di soprusi da parte delle istituzioni. La vita nello schermo soppianta il senso della realtà: filtri, illuminazione strategica e trucco possono alterare facilmente ciò che non mandiamo giù. Ci offrono un’alternativa patinata e confortevole, una finzione a cui scegliamo di credere. E ci catapultano in un mondo in cui l’approvazione è misurabile, la disapprovazione facilmente cancellabile e l’impegno sociale, reale o no che sia, fornisce un pretesto e una veste moralmente elevata all’esibizione di sé e al culto dell’immagine, in una rivisitazione contemporanea e fantasiosa della formula arcaica kalòs kai agathòs della cui degenerazione avremmo fatto volentieri a meno.
Non si esclude a priori, naturalmente, che le persone coinvolte siano socialmente impegnate in attività nobili e utili nel mondo reale. Tuttavia è incomprensibile immaginare come si possa pensare o anche solo supporre che un’immagine patinata in mezzo a un mare di immagini patinate e tutte uguali possa far del bene. Non sono le fotografie di Gerda Taro o Robert Capa e non è Kim Puch nuda in corsa sulla strada. Non scuoteranno alcuna coscienza, almeno non più del tempo necessario a un click.
Della presa di posizione e del supporto morale elargito in forma di hashtag non si può pensare che siano la manifestazione dell’impotenza di fronte a eventi su cui non si ha possibilità di intervenire direttamente, ma piuttosto nasce il sospetto che siano il modo di mettere a tacere la coscienza che fa capolino quando i TG rimandano immagini che farebbero apparire superficiale ogni ostentazione e ogni esibizionismo, che però nel mondo social dell’apparenza non possono fermarsi, pena l’oblio di un’utenza che rapidamente si entusiasma e altrettanto rapidamente dimentica. E, nelle fila del pubblico che dispensa like e cuoricini nei commenti, la coscienza si zittisce manifestando apprezzamento per la sensibilità dimostrata. Cuoricini, ancora, e applausi. Virtuali. E dopo avanti, seconda stella a destra e poi dritto verso il prossimo post.