Povera patria, cantava Battiato, nella sua orazione civile sulle macerie di un paese martoriato da orrori e sanguinosi tradimenti, alla vigilia della tragica fine di Falcone e Borsellino. I brindisi sul Britannia avrebbero seppellito l’ultimo grande sussulto di dignità nazionale: cioè la fermezza di Craxi, nel 1985, nello schierare i carabinieri a Sigonella contro i marines di Reagan. Insieme ai dirottatori palestinesi della nave da crociera Achille Lauro, gli americani volevano infatti arrestare anche Abu Abbas, il mediatore dell’Olp di Arafat sceso in campo su richiesta di Roma per negoziare con successo il rilascio degli ostaggi.

Proprio a Sigonella si videro gli ultimi lampi di una sovranità politica espressa nella proiezione mediterranea, secondo la linea anti-colonialista (pari dignità e dialogo con tutti) inaugurata da Mattei e proseguita con Moro e lo stesso Andreotti. Il tema: saper stare nella Nato, ma con margini di relativa autonomia. Obiettivo: poter coltivare ottime relazioni con il Medio Oriente e persino con l’Urss. Questo faceva dell’Italia un interlocutore internazionale autorevole e rispettato, a tutto vantaggio poi dello stesso made in Italy. In altre parole: anche gli italiani – come i francesi, i tedeschi e gli inglesi – lavoravano per il legittimo interesse nazionale.

DA SIGONELLA ALLA GRANDE SVENDITA DEL PAESE

Un allora giovane Mentana, dal molo di Civitavecchia, raccontò che sul Britannia si erano incrociati Mario Draghi, Emma Bonino e Beppe Grillo. Il primo avrebbe incarnato la Voce del Padrone, o meglio del nuovo padrone assoluto: l’oligarchia finanziaria, pronta a fare dell’Italia un sol boccone. La seconda, pannelliana, avrebbe ribadito la tradizionale sudditanza atlantista, ammantata di eticità democratica. Il terzo, teoricamente solo un comico, di lì a poco avrebbe interpretato la parte più difficile: infiammare il pubblico con l’antipolitica, per poi creare e guidare un movimento nato sul web giurando di voler cambiare il mondo, salvo rimangiarsi tutte le promesse non appena arrivato al governo.

Non stupisce la plateale umiliazione pubblica oggi inflitta a Giorgia Meloni: i signori di Bruxelles non le hanno lasciato toccare palla, neppure sul dossier Ucraina. Se si tratta di decidere qualcosa di importante, in ambito euro-atlantico, prima vengono Parigi, Londra e Berlino: l’Italia può accomodarsi in sala d’attesa, tra i paesi minori. Uno smacco – l’ennesimo – di cui ora il governo Meloni, ovviamente, si lamenta. Non è simpatico, essere trattati come il parente povero, specie dopo aver lustrato con tanto zelo le scarpe (o meglio, gli scarponi militari) dello Zio Sam, obbedendo prontamente alla richiesta di coprire di armi l’amico Zelensky. E questo sarebbe il ringraziamento?

L’OBBEDIENTE MELONI UMILIATA A BRUXELLES

Sì, questa è esattamente l’umiliazione che può essere sofferta solo da chi si è messo al servizio di un padrone dispotico, fingendo di considerarlo un alleato. Una dura lezione, per la neo-premier. Lo ricorda spesso Alessandro Meluzzi: la Meloni ha meno colpe, rispetto ai tanti che l’hanno preceduta. E cerca comunque di muoversi in un’ottica di “riduzione del danno”, dopo le scandalose genuflessioni che l’establishment nazionale incardinato attorno al Pd ha regolarmente imposto agli italiani. Pagine incresciose di puro e semplice commissariamento, da Monti e Draghi, passando per servizievoli maggiordomi del calibro di Gentiloni.

Pare che l’Italia sia l’unico, dei grandi paesi europei, a cui si possano rifilare ceffoni di ogni genere. Le sberle appena rimediate nel santuario dell’Ue fanno il paio con l’imbarazzante imposizione di Zelensky a Sanremo: visto che il presidente ucraino sarà comunque presente (in spirito) al Festival dell’Italianità, perché mai perdere tempo in inutili colloqui con l’irrilevante Meloni, che notoriamente si limita ad eseguire ordini superiori? Valeva anche per il baldo Matteo Renzi: riuscì a regalare metà delle fruttuosissime Poste Italiane a BlackRock per compiacere sua santità Larry Fink. E scattò sull’attenti quando Obama gli spiegò che proprio la docile Italia, non a caso, sarebbe stata prescelta come area-test in Europa per varare i nuovi obblighi vaccinali destinati all’infanzia.

CONTE, RENZI, GRILLO: NON COMANDANO GLI ITALIANI

Possono cambiare i musicisti, ma non lo spartito: toccò a Giuseppe Conte obbedir tacendo, nella drammatica primavera 2020, quando fu imposto che proprio l’Italia dovesse essere il battistrada europeo per la gestione autoritaria della crisi Covid. Neppure due anni prima, l’allora sconosciuto “avvocato del popolo” dovette ingoiare il rospo, prima ancora di mettere piede a Palazzo Chigi, con la clamorosa bocciatura di Paolo Savona come possibile ministro dell’economia. La colpa di Savona? L’aver manifestato sacrosante opinioni euroscettiche.

Faceva paura, il governo gialloverde? Insegneremo agli italiani come votare, abbaiò il tedesco Günther Oettinger, commissario europeo. Qualcuno osò rispondergli a tono? Macché: sbarrando la strada a Savona, il Quirinale si spinse anzi a chiarire – in piena consonanza con Oettinger – che il parere dei mercati finanziari doveva essere sicuramente prevalente, rispetto all’orientamento degli elettori (con tanti saluti al rituale della democrazia). Una franchezza, quella di Mattarella, che fotografava la realtà: da Mani Pulite in poi, la residua sovranità italiana poteva considerarsi archiviata.

IL BLUFF DEL GOVERNO GIALLOVERDE

Con queste premesse, il governo gialloverde nasceva zoppo. Molto rumore per nulla: basta osservare l’eclissi di Salvini e l’invereconda parabola di Di Maio. Avevano dichiarato di voler “spezzare le reni” a Bruxelles, cioè all’ordoliberismo e al rigore finanziario, ma non hanno ottenuto nulla. Scontato, poi, il calo (il crollo) dei consensi. Era successo anche a Renzi: un improvviso, travolgente successo, e poi l’altrettanto repentina sparizione. Una minaccia che ora incombe sulla stessa Meloni, anche se – diversamente da Renzi, Grillo e Salvini – ha almeno evitato di promettere la Luna per fare il pieno di voti.

Altra differenza, sostanziale: il trio populista giocava la sua facile partita in tempo di pace, quando il bluff poteva riuscire quasi indolore. Ora è tutto diverso: dopo la catastrofe Covid e il delirio della guerra americana contro la Russia, la poltrona di capo del governo è diventata scomodissima. Sono quindi ben lieti, tutti quanti, che sia proprio l’outsider Meloni a dibattersi in mezzo a soluzioni impossibili: tra l’incudine dell’eterno euro-rigore e il martello Nato, che non tollera disobbedienze. Dal canto suo, Giorgia Meloni sembra esserne perfettamente consapevole: lo scettro le è stato ceduto solo adesso e solo così, nelle peggiori condizioni possibili.

STOP ALLA GUERRA E AL RIGORE UE: O ADDIO MELONI

Che cosa dovrebbe fare, un governo intenzionato a tutelare la comunità nazionale? Primo: battersi per imporre una soluzione negoziale del conflitto in Ucraina. Secondo: avvertire i partner europei che il paese necessita di enormi investimenti strutturali, a fondo perduto, tali da mandare in soffitta per sempre l’ipocrita “paradigma della scarsità” su cui si basa l’austerity predatoria dell’eurocrazia. Dal Britannia sono passati trent’anni: quel giorno era il 2 giugno, Festa della Repubblica. Quei poteri non scherzano, con i simboli: alla repubblica hanno davvero “fatto la festa”.

Quindi: se non si decide a muoversi, anche la Meloni farà la fine di Renzi, Salvini e Grillo. La vera notizia però è un’altra: se il governo resta prigioniero dei ricatti incrociati, a rimetterci saranno innanzitutto gli italiani. Per uscire dal tunnel occorre una notevole dose di coraggio, oltre che di abilità nel sapersi districare tra le insidie di un establishment nazionale che risponde a logiche non italiane. Politica, istituzioni, gruppi economici, burocrazia ministeriale, grandi media: sembrano sempre al servizio di poteri esterni. La partita è quindi molto difficile, nessuno lo nega. L’esito peggiore? Non cominciarla neppure, come hanno fatto tutti i predecessori di Giorgia Meloni.

Certo, l’impresa resta ad altissimo rischio, piena di trappole e irta di svantaggi. Per franare su se stesso, al governo gialloverde bastò la guerriglia finanziaria mossagli dai supremi poteri europei, al comando dai tempi del Britannia. Ora sul piatto c’è anche l’altra guerra, quella vera. E Giorgia Meloni – nonostante l’orgoglio patriottico stampato nel nome del suo partito, Fratelli d’Italia – non ha ancora voluto (o potuto) muovere un solo passo per provare a spezzare il copione nefasto delle due guerre in corso, entrambe contro l’Italia, combattute da finti alleati. Gialloverde o stellestrisce, il risultato non cambia: il Belpaese sembra essere ancora ostaggio del Britannia.

GIORGIO CATTANEO

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