Tu provaci, a schierare i carabinieri contro i marines. Finirai ad Hammamet, se ti chiami Craxi: sarai travolto da Tangentopoli. E se ti chiami Andreotti, ti troverai pure accusato di aver favorito Cosa Nostra. Nella notte tra il 10 e l’11 ottobre del 1985, probabilmente, l’espressione “sovranità nazionale” sventolò per l’ultima volta sul territorio italiano. Il governo impedì agli americani di arrestare i dirottatori della nave da crociera Achille Lauro e il mediatore dell’Olp, Abu Abbas. Era stato inviato da Arafat – su richiesta italiana – per ottenere il rilascio di equipaggio e passeggeri, sani e salvi. Tutti, tranne uno: Lion Klinghoffer.

Un’esecuzione di spietata ferocia. Lo statunitense sessantanovenne Klinghoffer, di religione ebraica, era disabile a causa di un ictus: costretto su una sedia a rotelle. Durante il sequestro della nave, su cui s’era imbarcato per una tranquilla vacanza, fu ucciso con due colpi d’arma da fuoco e gettato in mare. Per quale motivo? Ha provato a spiegarlo in un incontro pubblico lo scrittore Giovanni Francesco Carpeoro, all’anagrafe Gianfranco Pecoraro. Un tempo avvocato vicino a Craxi. E autore di saggi come il recente “Dalla massoneria al terrorismo”, sui veri mandanti dell’Isis.

LA NOTTE DI SIGONELLA: CHI ERA KLINGHOFFER

La versione di Carpeoro: sia Craxi che Reagan, oltre ovviamente al commando palestinese, sapevano benissimo chi era, il povero Klinghoffer. O meglio: chi era stato, prima di diventare un invalido. I suoi killer lo ritenevano un alto esponente del B’nai B’rith. Vale a dire: la cerchia più riservata, massonica, che governerebbe il Mossad. Da quella speciale cabina di regia – questa la tesi accusatoria – Klinghoffer avrebbe ordinato l’esecuzione di stragi efferate. Quella palestinese sarebbe stata dunque una sorta di atroce vendetta? Per stabilirlo, forse, occorrerebbe accedere a documenti desecretati.

È quello che ha fatto un reporter di lungo corso, Raffaele Romano, per indagare sui lati oscuri della storia recente. Risultato: il volume Andreotti, Craxi e Moro visti dalla Cia”, stampato da Amazon. L’ennesimo libro-fantasma, ignorato dal mainstream. Pubblicato nel 2022, ora ripresentato a Napoli. Si lamenta l’autore: in Italia, non ha trovato un solo editore disposto a distribuirlo. Motivo: non si salva nessuno, dall’impietosa radiografia politica di certi retroscena. Ne viene fuori un’Italia oggi impensabile. Come quella che aveva voce in capitolo, nel Mediterraneo, quando si trattava di stemperare le tensioni internazionali.

QUANDO SALVAMMO LA VITA A GHEDDAFI

Scandaloso, per gli americani, il patto segreto con i palestinesi: niente attentati, in Italia. In cambio, l’aiuto di Roma (sottobanco) all’Olp. E per premio: il prezzo del petrolio, calmierato per anni solo per noi. «Capite? Era l’Italia di Andreotti e Craxi: che salvarono la vita a Gheddafi, avvertendolo all’ultimo minuto del missile americano in arrivo sulla sua residenza, a Tripoli». A ricordarlo è Giulio Di Donato, dirigente socialista dell’ultima stagione craxiana. Oggi sembra quasi un caposcuola: «La vera politica non insegue il consenso, lo crea. Come? Attraverso la partecipazione consapevole».

Ovvero: «Non si tratta di blandire i gruppi sociali, le corporazioni. Certo, bisogna saper contemperare esigenze diverse: ma nell’ambito di un interesse comune». Che fine ha fatto, quell’Italia? Semplicemente rottamata da due cicloni esplosi in contemporanea: Mani Pulite e Mafiopoli. La bufera-tangenti si scatenò anche su altri paesi europei, ricorda Romano, ma Francia, Germania e Spagna reagirono in modo ben diverso: nessuno si sognò di infangare Kohl, Mitterrand e Gonzales. La differenza? La fragilità estrema dell’Italia. L’impero americano? Fa i suoi interessi legittimi, sottolinea l’autore del libro: siamo noi che ci auto-sabotiamo, rinunciando a dire la nostra.

IL CASO MORO: L’INIZIO DELLA FINE

Romano tiene a precisarlo: il suo libro non potrebbe essere agitato in alcun modo come strumento a disposizione dell’antiamericanismo di maniera. Insiste: non è in discussione l’invadente ingerenza della Cia negli affari italiani (il volume in effetti parla quasi solo di quella). L’autore però si professa atlantista, nonostante tutto. E comunque, il suo messaggio arriva forte e chiaro: fino all’altro ieri, non si era “usi obbedir tacendo”. C’era modo di farsi valere, pur senza mai mettere in discussione la collocazione atlantica dell’Italia e la tutela delle prerogative israeliane. L’inizio della fine? Il caso Moro.

«Avrei potuto parlare anche di Mattei e De Gasperi – dice Romano – ma avrei finito con lo scrivere una Bibbia». Bastano e avanzano i tre statisti citati nel titolo. Cominciando dal primo a cadere, Aldo Moro. Sarebbe stato rapito in seguito all’agguato di via Fani, il 16 marzo del 1978. A terra, 89 bossoli. «Un’operazione militare: uccisi i cinque agenti della scorta, ma senza ferire Moro nemmeno di striscio». Poi, quasi due mesi dopo, il cadavere del presidente della Dc venne ritrovato in via Caetani. Nel corpo, i segni di ben 12 proiettili esplosi a distanza ravvicinata. «Eppure, nessuna di quelle pallottole gli aveva centrato il cuore: Moro era morto dissanguato».

SORPRESA: IL PCI ALL’AMBASCIATA USA

Strano, si interroga Romano: prima massacrano cinque poliziotti armati e addestrati, poi però faticano a uccidere l’inerme Moro. Erano davvero della stessa filiera, i killer? O magari in via Fani erano intervenuti “professionisti” ben più abili dei brigatisti rossi? Ma soprattutto: per quale motivo assassinare Moro? Solo perché era sul punto di sigillare il compromesso storico con Berlinguer? Forse, questa è la versione destinata alle anime belle. Intanto, la stessa Urss era diffidente. Non le piaceva, quell’accordo: perché Berlinguer aveva preso le distanze da Mosca. E poi: sicuri che gli americani vedessero il Pci come fumo negli occhi?

Qui sta probabilmente la novità più esplosiva, del libro di Raffaele Romano. Le fonti ufficiali, a cui ormai è stato tolto il segreto, confermano la verità più inattesa: da almeno otto anni, la Cia stava “coltivando” il partito di Berlinguer. Dal punto di vista “imperiale”, non fa una grinza: se si teme che un partito non allineato finisca al governo, prima o poi, conviene stabilire rapporti privilegiati con i suoi dirigenti. Certo, rapporti inconfessabili: imbarazzanti, per entrambe le parti. Almeno, lo erano nel 1970. Perché poi, invece – dopo Tangentopoli – il disegno apparve chiaro: proprio sull’ex Pci aveva puntato, il potere atlantico, per continuare a controllare l’Italia. Anzi: per controllarla molto meglio, rispetto ai tempi di Moro, Andreotti e Craxi.

BERLINGUER E GLI AMERICANI

Chi poteva immaginare che il Pci italiano intesseva rapporti con gli Stati Uniti, nel lontano 1970? Se lo domanda Giorgia Piccolella su “Paese Italia Press”, frugando tra le pagine di Romano. I rapporti con l’ambasciata di via Veneto erano sistematici. Ospite fisso della sede diplomatica, Luciano Barca: il factotum di Berlinguer. Insieme a lui, parlavano con gli americani anche Giorgio Amendola, Sergio Segre, Alfredo Reichlin. E pure Giuseppe Boffa, Giorgio Napolitano e addirittura il “ragazzo rosso”, l’inflessibile Giancarlo Pajetta. Pur tra mille distinguo, e vantando l’autonomia politica da Mosca, gli uomini del Pci – mossi a loro volta da realpolitik – dialogavano con il super-potere che di lì a poco avrebbe “sovragestito” persino il rapimento Moro, attraverso un uomo come Steve Pieczenik.

Quel “consulente” era stato incorporato da Cossiga nella struttura speciale messa in piedi per affrontare la drammatica emergenza del sequestro. Nella prefazione del volume di Romano, Enrico Fagnano ricorda che – decenni dopo – lo stesso Pieczenik ammise si aver lavorato per impedire di salvare Moro, che nel frattempo (interrogato dai brigatisti, dunque sotto minaccia) stava lanciando gravissime accuse nei confronti del sistema di potere romano. Non poteva tornare libero, secondo Pieczenik: «La fragile democrazia italiana non avrebbe assorbito il colpo». Meglio quindi la politica della “fermezza”, che avrebbe portato alla morte dell’ostaggio.

ITALIA AL GUINZAGLIO, DA ALLORA

L’Italia? Un paese da tenere al guinzaglio. Nero su bianco, Allen Holmes (il vice dell’ambasciatore Richard Gardner) definisce il nostro paese «una nazione a sovranità limitata». Scrive il Dipartimento di Stato: «Pensiamo di sapere cosa è meglio, per l’Italia, rispetto agli italiani stessi». E aggiunge: un’ingerenza di tale portata «sarebbe impensabile, in un’altra nazione dell’Europa Occidentale». Un altro diplomatico, l’ambasciatore Reginald Bartholomew, ammise che il console Peter Semler aveva rapporti non ortodossi con la Procura di Milano. Bartholomew ne sarebbe stato contrariato. Al punto che nel 1993 avrebbe convocato a Roma sette importanti giudici italiani: per far loro notare «le gravi violazioni dei diritti della difesa nelle indagini di Tangentopoli».

Gli fece eco lo stesso ex console Semler: «Con nonchalance, ammise di aver saputo da Di Pietro, nell’autunno del 1991 – cioè cinque mesi prima dell’inizio di Mani Pulite – che avrebbe arrestato Mario Chiesa, l’allora sconosciuto presidente del Pio Albergo Trivulzio. E da lui, gli avrebbe confidato Di Pietro, sarebbe poi arrivato a Craxi e alla Dc». Chiaro, no? Ma non prendetevela con gli americani, insiste Romano: qualunque altro potere “imperiale” si sarebbe comportato così. È stata l’Italia, semmai, a rinunciare completamente a tutelare i propri interessi, come invece hanno fatto Parigi e Bonn. E allora: perché il nostro paese è così cedevole? Troppo dura, la lezione di Sigonella? Impossibile reggere, di fronte a un’operazione come Mani Pulite? Ma soprattutto: perché proprio l’Italia è sempre nel mirino di poteri ostili?

GIORGIO CATTANEO

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