Le ricorrenze hanno alle volte un che di retorico, spesso anche pacchiano nella loro superficiale grossolanità. Qui, però, non intendo parlare di questo e, tentando con tutte le mie forze di essere quanto meno retorico, pacchiano, superficiale e grossolano possibile, voglio condividere non una ricorrenza autocelebrativa e nemmeno una autocritica in stile pentitismo, no. 

Qui voglio condividere una riflessione su quel periodo storico: a quel tempo ero un adolescente liceale in crisi di identità, allora così si diceva. Avevo trascorso gli anni precedenti negli ambienti della Azione cattolica locale e a un certo punto mi accorsi che c’era qualcosa che non quadrava, tra ciò che mi era stato fino ad allora insegnato e una pratica che non era affatto conseguente a quegli insegnamenti. 

Soprattutto mi costernava la dicotomia assoluta che mi saltava agli occhi e così le domande cominciarono ad affiorare prepotentemente, fino a che rivolgermi altrove mi sembrò l’unica cosa sensata da fare. Approdai allora alla conclusione che le organizzazioni della sinistra, allora si declinavano in socialista comunista ed extra-parlamentare (anche denominata sinistra rivoluzionaria), mi sembravano essere più vicine al messaggio cristiano che mi era stato insegnato e che condividevo. Insomma, ero un sedicenne che si metteva in cammino. 

Nel frattempo, mi ero già innamorato, per così dire, della musica “moderna”, allora c’era un programma alla radio presentato dal grande Lelio Luttazzi e che, come molti spero ricorderanno, si chiamava Hit Pare’ (lo scrivo così come Lelio Luttazzi lo pronunciava, con enfasi calcistica). Quel programma mi aveva fatto conoscere i Beatles di Obladi Oblada e Yellow submarine, il David Bowie di Starman e l’Elton John di Crocodile rock mentre nelle “feste”, nelle quali eravamo tollerati dai più grandi, ascoltavamo e ballavamo con cose tipo Santana, Deodato, Creedence C.R. e anche alcuni italiani come Fred Bongusto, Peppino di Capri, Lucio Battisti, Mina, Celentano e altri, che non menziono perché parte della galassia che consideravo/vamo “musica leggera”. Infine, c’erano quelli più estremi tipo i Led Zeppelin di Black Dog e Immigration song oppure i Deep Purple di Smoke on the water (sulla quale mi cimentavo nei primi passi da batterista in erba) e Women from Tokyo. Il passo per arrivare alla Premiata F.M. il Banco del M.S., Le Orme fu compiuto in breve tempo, anche perché nel frattempo avevo scoperto un giornale che si chiamava QuiGiovani, che occupandosi oltre che di musica anche di temi culturali, politici e sociali, mi avrebbe dato la sterzata definitiva verso la musica rock, l’underground e il primo impegno politico (era il tempo del Referendum sul divorzio). 

Nel frattempo, le amicizie liceali si espandevano e i conflitti diventavano sempre più frequenti sia a casa, sia tra gli amici, perché sebbene alcuni ascoltassero la stessa musica avevano altre idee. Le feste così spesso si trasformavano in discussioni infinite tra chi sosteneva una visione emancipativa e chi invece una elitaria. 

Anche le amicizie si andavano distillando e la musica diveniva una linea di demarcazione politico-culturale sempre più decisa e radicale. Bisogna ricordare che in quegli anni vedevano la luce artisti e gruppi del calibro di Franco Battiato con Pollution, gli Area di Demetrio Stratos con Luglio, Agosto Settembre nero e Gioia e Rivoluzione ma anche i napoletani Osanna e Napoli Centrale e i cosiddetti “cantautori” come De Gregori, Dalla, Venditti, il primo Baglioni, Cocciante, Branduardi, il Bennato di Rinnegato, solo per citare quelli che mi vengono prima alla mente e scusandomi per gli altri che dimentico oppure non cito per distrazione. Questo per descrivere il “paesaggio sonoro” di quel periodo. 

Molti di questi nomi li troveremo poi anche al Parco Lambro. Il nome di quel Parco, Lambro, era avvolto in un alone di mistero, tra la favola e il mito. Un amico, mio coetaneo, faceva la spola tra Milano e Battipaglia, una periferia abbandonata della provincia dell’Impero, come allora la definivo, dove ho vissuto per gran parte della mia vita. L’arrivo di questo mio amico era atteso con interesse, perché quando tornava portava sempre qualche disco da ascoltare (in buona compagnia), oppure ci cantava o, come dicevamo tra noi, ci faceva sentire con la chitarra l’ultimo pezzo che aveva conosciuto, suonandocelo più e più volte perché stava ancora imparandolo per bene. Poi ci raccontava di questo posto incredibile, il Lambro, dove era possibile incontrare le persone più strane, musicisti, poeti, cantori, hippies, guru, gente che si imbarcava in esperienze e viaggi psichedelici alla ricerca di sensazioni interiori e della coscienza. Parco Lambro, o “il Lambro” come amava chiamarlo il mio amico, era raccontato come una sorta di luogo alternativo, una specie di Christiania in salsa milanese, dove chi lo frequentava si sentiva quasi come in una sorta di “comune”, altro mito immarcescibile di quel periodo storico, dove vigevano la libera espressione di sé, una creatività senza freni e dove tutti erano un po’ amici e solidali ma soprattutto erano “contro il sistema”. Era questo il leitmotiv, una sorta di certificato di autenticità culturale, un lasciapassare che garantiva l’ingresso in una realtà alternativa, creativa, sperimentale dove la regola era “non ci sono regole, tutto va esplorato”. 

Oggi sappiamo che, pur con le inevitabili distorsioni e degenerazioni che sempre hanno accompagnato l’attività umana, quello fu un periodo di feconda attività creativa capace di dare vita a una ricerca di contenuti espressivi molto vari, aperto alle influenze più diversificate e senza mai dimenticare la radice popolare e l’indirizzo tutto proiettato in funzione di una emancipazione culturale, politica e sociale che avrebbe dovuto condurre le “classi subalterne alla liberazione dal giogo dell’oppressione della borghesia capitalista e delle multinazionali ed alla autodeterminazione dei popoli”. 

L’intersezione, l’intreccio, la contaminazione diremmo oggi, di questi elementi consentiva l’esibizione sullo stesso palco delle formazioni più sperimentali del momento, insieme con i gruppi che si ispiravano alla più schietta canzone popolare tradizionale. Al Parco Lambro non si teneva solo o semplicemente un evento sonoro ma anche e soprattutto “il Festival del proletariato giovanile” che rappresentava e manifestava tutto questo: una dichiarazione di “guerra al sistema”. A partecipare erano i figli della classe operaia di allora, i figli degli impiegati, dei lavoratori, dei proletari che lottavano nelle fabbriche e nelle piazze, nelle Università, per conquistare e vedersi riconosciuti i propri diritti, era la nuova generazione che, cosciente della propria condizione ed appartenenza sociale, lanciava il guanto di sfida “al sistema” con l’intento di sovvertirne le regole oppressive a liberticide (sempre per usare un termine di allora) e per crearne di nuove che avrebbero portato alla definitiva liberazione degli oppressi dal giogo dei “padroni”. Questa parola “i padroni”, per quanto vetusta e desueta possa suonare, rende in maniera palpabile la condizione reale in cui, ancor più oggi, vivono i cittadini ed i reali rapporti di forza nella società. 

Non fu un caso se a un certo punto nelle piazze si cominciò a gridare uno slogan che era la sintesi di un manifesto politico: Studenti e Operai uniti nella lotta! 

La realtà di oggi, sebbene edulcorata e drogata, ripropone drammaticamente temi e condizioni che si credevano in fase di superamento ma che invece si ripresentano e vengono imposti con una durezza, una protervia e una violenza mutate nella forma ma accentuatesi nella sostanza. Oggi si sente un imponente bisogno di raccontare queste cose, non con fare auto-celebrativo, o con piglio critico e saccente nei confronti degli adolescenti e dei giovani di oggi, ma per riconsegnare loro una memoria, cui troppi tra noi, durante gli anni del cosiddetto “edonismo reganiano” avrebbero rinnegato o abiurato. Un racconto capace di risvegliare nei giovani un interesse ed un orizzonte che non hanno dimenticato né tantomeno rinunciato ma che è stato loro semplicemente nascosto e negato. I nuovi canali di comunicazione indipendente oggi si facciano carico di questo compito e lo assumano come abito espressivo permanente, affinché questo vuoto di memoria venga finalmente colmato e ricondotto al suo valore di impegno e testimonianza per le nuove generazioni. 

Questo è il mio piccolo modo per ricordare il “Festival del proletariato giovanile” tenutosi a Milano al Parco Lambro quel lontano, ma neanche troppo, 29 maggio del 1975.

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