L’Unghexit – l’uscita dell’Ungheria dall’Unione Europea – si annuncia come il tema di fondo delle elezioni che si svoleranno il 2 aprile. L’UE ha schierato la sua potenza di fuoco (ufficialmente, è una pura coincidenza temporale) per far sì che lo sgradito Orban non risulti più primo ministro. Troppo populista, per i gusti di Bruxelles, ove per “populista” si intende chi vuol essere padrone a casa propria.
Lo stesso Orban, aprendo la campagna elettorale alla fine della scorsa settimana, ha accennato alla possibilità che l’Ungheria esca dall’UE. Ha accusato la UE di effettuare una crociata, una jihad, agitando la bandiera dello stato di diritto. Ha chiesto un po’ di tolleranza altrimenti, ha affermato, non è possibile continuare il cammino comune.
Lo stato di diritto in teoria è quello con un’architettura istituzionale e delle leggi che impediscono l’esercizio arbitrario del potere. Secondo l’Unione Europea tuttavia lo stato di diritto è quello che permette l’applicazione del diritto europeo (europeo, non nazionale) e che promuove un ambiente commerciale favorevole agli investimenti.
Traduzione pratica: lo stato di diritto è un fedele servitore dell’UE e del liberismo economico transnazionale che essa rappresenta. Lo stato di diritto è quello che antepone il diritto europeo al diritto nazionale. E invece l’Ungheria di Orban (ma anche la Polonia e non solo) antepone il diritto nazionale al diritto europeo.
Infatti pochi giorni dopo le parole di Orban la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha pronunciato una sentenza che consente concretamente alla Commissione Europea di tagliare i fondi UE a chi non si adegua allo stato di diritto, cioè essenzialmente all’Ungheria e alla Polonia.
Quella con l’inizio della campagna elettorale in Ungheria è una pura coincidenza temporale.
La minaccia di tagliare i fondi era nell’aria da tempo. L’Ungheria è, dopo la Polonia, il maggior beneficiario netto dei fondi UE. Il messaggio all’Ungheria e agli elettori ungheresi, sebbene obliquo e indiretto, è chiaro: se fate come vi diciamo noi, qui ci sono i quattrini. Altrimenti, niente.
L’Italia fa sempre quel che vuole Bruxelles e in più i quattrini li sborsa, e anche tanti. Ma è un altro paio di maniche.
Insieme all’Ungheria, nel mirino UE della diatriba sullo stato di diritto c’è anche la Polonia. Anch’essa a questo punto rischia il prosciugamento del bancomat UE. Oltretutto un’altra sentenza, pochi giorni fa, consente alla Commissione Europea di trattenere dai fondi UE destinati alla Polonia l’ammontare di una stratosferica multa. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea l’ha comminata per via di una miniera di lignite.
Ovviamente, non c’è nessun legame fra il fatto che la Polonia, nell’UE, fosse già dietro alla lavagna per via della questione dello stato di diritto e il fatto che l’ammontare della multa per la miniera sia assolutamente senza precedenti. Una pur coincidenza anche questa.
Fiaccata così duramente nel portafoglio, ora la Polonia cerca un compromesso con la UE sullo stato di diritto. Come sanno essere convincenti gli euroburocrati di Bruxelles!
E l’Ungheria? L’Ungheria, no. Non a caso Orban ha aperto la campagna elettorale evocando l’Unghexit. Sa che è l’unico modo per restare padroni a casa propria. Gli ultimi sondaggi, pochi giorni fa, davano Fidesz – il partito di Orban – in netto vantaggio. Ma la strada verso le elezioni del 2 aprile è ancora lunga. Il Parlamento Europeo teme che si possano svolgere in modo irregolare e ha chiesto un attento monitoraggio.
Già subodorano brogli, insomma. C’è da scommettere che se gli euroburocrati di Bruxelles non avranno convinto gli elettori – se fate come diciamo noi, qui ci sono i quattrini – di brogli si parlerà davvero.
GIULIA BURGAZZI
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