
Un requiem per il punk!
Touch me, I’m sick, ululava, anzi grugniva Mark Arm dei Mudhoney, capofila di quel movimento grunge, che con il suo carico di anarchismo punk, frammisto a epifenomeni di un’anima saldamente hard rock, si apprestava a imprimere una decisiva rivoluzione copernicana allo stantio e patinato mondo di MTV.
Siamo a cavallo tra gli ‘80 e i primi ‘90, e l’alienazione di un mondo turbocapitalista, riducente l’essere umano al mero scarto di un processo produttivo, esitava nel conato generazionale codificato in un netto, inconcusso, rifiuto. A denial, a denial, a denial… guaiva, l’altro genio suicida (il genio è sempre suicida!) Kurt Cobain (Nirvana), morto come un eroe greco, come un Achille, nel fiore di una bellezza fragile ed eternata, orfano di una dea ma adottato dall’eroina.
I Nirvana, proprio dei Sex Pistols ex post. L’ultimo grido di verità prima che il movimento grunge venisse riassorbito dalla stessa retorica televisiva che se ne era appropriata, cavalcandolo, spremendolo fino al suo limite semantico. E poi, gli orfani Nirvana: uno tosto, il batterista, dotato e affarista – Dave Grohl –, lanciato alla conquista delle pop charts, e l’altro, il bassista spilungone, un po’ spaesato e in preda a confusione post traumatica. Tant’è.
Non esistono poteri buoni, e De Andrè codificò da par suo questi concetti, di un potere che non può riformar se stesso, di un leviatano così potente da disporre al suo interno inneschi per ogni vagito che non sia rifunzionalizzabile e a esso organico. Nessuna speranza.
Ed è da questo assunto che l’epopea punk, scivolando a ritroso lungo il cono della storia al pre ‘77, sfrondata da ogni ingabbiamento mainstream successivo, moveva col suo carico di anarchia nichilista, no future for me… forse naif, ma segno inequivocabile, plasticamente grondante dal sangue di ferite autoinflitte (Sid Vicious), nessun infingimento possibile, a quelle latitudini.
Se un padre fondatore del genere, Iggy Pop, con i suoi The Stooges, risputava in faccia alla società benpensante, gli archetipi di un “amore” continente e al solo scopo riproduttivo, attraverso decadenti manifesti (I wanna be your dog!), inno di una sessualità torbida e sfacciata, e un altro meno conosciuto GG Allin faceva sul palco tutto ciò che un reietto della società capitalista può fare, e farsi, eccetto sbudellarsi – chiari fenomeni di una patologia psichiatrica, osata fino ad un epilogo d’elevazione artistica –, l’eredità di quel conato, che a torto o a ragione rifiutava l’establishment politico e culturale tout court, è oggi andato perso nei mille rivoli di un’omologazione generale, pasciuta negli studi televisivi, nei pollai reality, e allevata dagli artisti del consenso, costi quel che costi. Se da un lato, pochi ormai incanutiti eroi, da Roger Waters a Eric Clapton e Van Morrison (quest’ultimo, chiaramente schieratosi in una canzone, No More Lockdown), tutta gente che per motivi anagrafici ha elaborato dottrine di guerra e pace, poteri oscuri e alienazione post-industriale, baby boomers che hanno vissuto nella carne i postumi della seconda guerra mondiale, dall’altro lato della barricata troviamo sì, icone pop da stadio (Mariah Carey, Bruce Springsteen ecc…), nella quasi scontata declinazione filogovernativa, ma anche insospettabili deità “punk”, Jello Biafra (Dead Kennedys), che nella sua personale cieca lotta contro i repubblicani sembra aver perso per strada elementari nessi causali e capacità critica, o come lo stesso Dave Grohl (Foo Fighters, Nirvana), che pubblicamente dichiara che i suoi concerti sono aperti solo ai vaccinati.
Bene, chi è cresciuto con la musica dei Nirvana, la cui cifra sostanziale è un mix di rigurgiti acidi, antisessismo, antirazzismo, apologia junkie e rifiuto di ogni canone sociale sovraordinato, non solo trova stridente il messaggio, ma inizia ad esperire le complicanze emetiche di un rock ormai lettera morta e senza più un alito di slancio vitalista.
Stendiamo un velo pietoso su iconette nostrane (Maneskin) che dal bassissimo di un r’n’r per ottantenni, eurodiretto, tuonano, “Siete come i terrapiattisti, rifiutare il vaccino è da pazzi”, e lo fanno come organismo unico, reagendo in coro all’unisono, che quasi riesci a vedere la longa manus del ventriloquo ad armeggiargli dietro. Questi ultimi, evidente prodotto globalista, liquido quanto basta (occhieggiano al gender, rockstar per minoranze “sessualizzate”) da riuscire a schizzare nelle classifiche di mezzo mondo, con una velocità più che sospetta, a chi conosce gli intimi meccanismi dell’industria rock. Dal ribellismo senza causa al rock esotico per massaie, è un attimo.
Ebbene, io non ho vergogna di dire che ho imparato più dai miei cattivi maestri, nel mio personale primato dell’estetica sulla politica, che dai tanti e troppi mistificatori che ne sono scaturiti.
Chiamatemi pure nostalgico, ma lasciatemi i proclami messianico-erotici di Jim Morrison, le contorsioni porno di Wendy O. Williams, i proclami anti-merchandise dei Fugazi, le politicamente “scorrette”aneddotiche di Bon Scott (She’s Got The Jack), e perfino le etiliche performance di Axl Rose e soci…
Il punk non solo è morto, e da tantissimo, ma è resuscitato e cammina nella foggia di uno zombie eterodiretto e normalizzato, da un vodoo potentissimo, il Mercato e i suoi sacerdoti.
Il punk è morto. Viva il punk!