Nel gennaio del 2021, l’account dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, venne sospeso in maniera permanente senza che fosse stata violata in alcun modo la policy di Twitter. Questa la clamorosa rivelazione dell’ennesima puntata dei Twitter Files.

Matt Taibbi, scrittore e podcaster americano, ha recentemente svelato diversi piccanti retroscena della politica statunitense attraverso dei post sul noto social. Taibbi, lo ricordiamo, prima di parlare di Trump, già agli inizi di dicembre, aveva postato screenshot di email che i manager di Twitter si erano scambiati a proposito della moderazione dei contenuti.

In particolare aveva mostrato come la scelta di censurare notizie particolari, come quelle riguardanti il laptop del figlio di Joe Biden, Hunter, fosse il frutto di una precisa scelta politica e non del regolamento della piattaforma.

Solo alcuni dipendenti, come si vedrà anche nel caso di Donald Trump, espressero preoccupazione e disaccordo sulle azioni intraprese dall’azienda.

Come avrebbero protetto il Primo Emendamento se avessero impedito persino ad un politico di esprimersi liberamente?

Non era certo possibile, ma questo non rientrava nemmeno nei loro interessi.

Allo stesso Taibbi dissero che avrebbe potuto parlare dell’argomento ma soltanto seguendo precisi criteri, criteri dei quali il giornalista non ha mai svelato i dettagli. Tuttavia l’uomo ha raccontato quanto basta per far capire che non vi era di fatto la possibilità concreta di intraprendere una discussione franca e libera sulla questione.

Veniamo dunque alla questione del blocco dell’account incriminato.

Come ricorderete, a seguito dei fatti di Capitol Hill avvenuti il 6 gennaio 2021, Twitter bloccò l’account ufficiale dell’allora presidente Usa. A causa, si disse, del rischio di incitazione alla violenza.

Ecco dunque come sono andati i fatti in base al racconto di Taibbi.

Per anni Twitter ha cercato di rimuovere Donald Trump o perlomeno sospenderlo poiché giudicato utente scomodo. L’ex presidente aveva troppa presa sull’opinione pubblica. Troppi post, troppa interazione con la gente.

Ma non era forse questo ciò per cui era nato il social?

Lo scopo non era forse avere i leader, anche quelli che sembravano irraggiungibili, a portata di tastiera? Chiunque avrebbe potenzialmente potuto avviare una conversazione con i grandi della Terra e ricevere una risposta.

Non che questo accadesse sempre, ma il fatto che potesse accadere rendeva Twitter speciale.

L’uccellino blu tuttavia non era calibrato per personalità esplosive come quella di Donald Trump, e dunque dopo il 6 gennaio si prospettò seriamente la possibilità di chiudere il suo profilo.

Impiegati e alti funzionari lo consideravano un vero e proprio pericolo, una minaccia alla democrazia.

“Chiudiamo il suo account”, si disse, “Tanto limiteremo molti account, mica soltanto il suo”.

Per una debole voce che vedeva questa azione estrema come lesiva della libertà della parola, ve ne erano almeno altre 300 che il giorno 8 gennaio scrissero una lettera al Washington Post.

Gli impiegati chiedevano insistentemente a Jack Dorsey di bannare l’account del tycoon newyorkese, senza esitare ulteriormente.

Tuttavia, una volta esaminati con cura i post di Trump, i funzionari si accorsero che di fatto questi non violavano alcuna regola della community. Questo significava in parole povere che se avessero bloccato l’account, lo avrebbero fatto esclusivamente per una scelta prettamente politica.

Nessun tweet incitava all’odio, né all’insurrezione a Capitol Hill, cosa di cui invece tutti si erano ormai riempiti la bocca.

Adesso che i tweet di Trump sono nuovamente tutti visibili, è più semplice valutare. La sua ultima interazione con la piattaforma è una dichiarazione sul fatto che non andrà all’inaugurazione di Joe Biden.

Molti altri leader di altri Paesi che hanno invece apertamente incitato a prendere le armi in spalla e ribellarsi o agire fattivamente contro determinati gruppi di persone non hanno avuto conseguenze.

Questo era il caso ad esempio dell’Iran, della Nigeria, dell’Etiopia, o addirittura dell’India.

Eppure Twitter non ha rimosso i loro post o se lo ha fatto, non ha comunque mai chiuso i profili degli autori dei tweet.

Perché dunque Trump?

Trump era troppo influente. Inoltre, cosa parimenti importante, era conservatore e non supportava lo stesso partito politico – quello Democratico – che invece Twitter apertamente sosteneva (e finanziava).

Dopo le elezioni del 2020, inoltre, l’attacco al partito di Biden divenne frontale e senza esclusione di colpi.

Trump accusava apertamente gli avversari politici di aver frodato le urne e chiedeva pubblicamente che fosse fatta giustizia.

Gli impiegati più accalorati contro Trump cominciarono a dare in escandescenza. Alcuni citarono La banalità del male. Dissero che si sentivano costretti ad obbedire ad una politica aziendale che impediva loro di silenziare un soggetto pericoloso. Non era forse così che funzionava nella Germania nazista?

“Eseguivamo ordini, anche se non volevamo”, dicevano.

Yoel Roth, uno dei capi, era quello che maggiormente si faceva sentire.

Il manager del dipartimento legale del social, Vijana Gadde, supportata da Agrawal, propose pertanto di fare un meeting per valutare l’effetto boomerang che il blocco di Trump avrebbe avuto sulla piattaforma.

Nel mentre la notizia di una possibile sospensione del presidente degli Stati Uniti raggiungeva anche il Vecchio Continente.

Gli stessi Macron e Merkel si dissero estremamente preoccupati anche per i loro stessi account.

E così giunse il fatidico momento.

L’8 gennaio l’account di Donald Trump venne finalmente chiuso, tra l’estasi di qualcuno al quartier generale di San Francisco, ed un brindisi di altri noti che si accingevano a trasferirsi alla Casa Bianca.

Oggi il proprietario di Twitter è Elon Musk, un personaggio controverso, vero, ma sicuramente coraggioso e per niente facile da piegare ai ricatti della politica woke.

Lo stesso Musk ha riaperto l’account del magnate di New York dopo aver condotto un sondaggio pubblico sul social.

Yoel Roth, uno dei maggiori detrattori di Trump, non lavora più con Twitter. In seguito al rilascio dei Twitter Files (e diverse minacce) ha dovuto lasciare l’azienda.

E quel che è più interessante, Elon Musk non ha alcuna intenzione di fermarsi. Anzi, ha promesso che presto arriverà anche la puntata-verità sul Covid19.

Ma ha detto che lo farà lontano da San Francisco.

“Meglio spostarsi da questa città. Ormai è diventata troppo woke”.

Intanto Trump non sembra intenzionato a tornare sul social che lo ha cacciato malamente, e a questo punto senza neanche un motivo valido. 

L’ex presidente ha il suo Truth, seppur sia innegabile che i suoi tweet al vetriolo manchino ai patrioti rimasti sulla piattaforma.

Vedremo cosa ci riserverà la prossima puntata.

MARTINA GIUNTOLI

 

 

 

 

 

 

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