L’Italia del Nord muore di sete, quella del Centro è sulla buona strada. L’acqua potabile è già razionata in un centinaio di Comuni del Piemonte e della Lombardia; altri razionamenti presumibilmente seguiranno. Ma il problema riguarda anche l’agricoltura – non piove da mesi, fa caldo, bisogna irrigare per salvare i raccolti – e addirittura l’energia elettrica.

Proprio ora che il gas è scarso, la produzione di energia idroelettrica è in difficoltà e si stanno fermando le centrali termoelettriche lungo il Po: non c’è acqua per raffreddare le turbine. Già andati KO gli impianti di Moncalieri (Torino), di Sermide ed Ostiglia, tutti e due in provincia di Mantova.

Le previsioni meteo non consentono di sperare in un rapido miglioramento della situazione. Più passano i giorni, più si assottigliano i margini per gestire in modo razionale l’acqua, o quel che ne resta. Già ora è emergenza: ma i piani alti possono ancora far finta di non vedere. Quando diventerà indifferibile agire, presumibilmente grandinerà sugli italiani una scoordinata cacofonia di severissime restrizioni emergenziali.

Al momento, l’epicentro della crisi sono il Po (è in secca come non si vedeva da settant’anni) e la Pianura Padana. L’inverno è stato molto avaro di precipitazioni – su alcune zone del Nord non piove da ormai 110 giorni – e la poca neve caduta in montagna ha già finito di fondersi e di alimentare i fiumi che scendono dalle Alpi.

E proprio sulle Alpi, o ai suoi piedi, si trovano i circa 100 centri i cui sindaci hanno già limitato l’uso della potabile. In una ventina di Comuni del Bergamasco è vietato innaffiare i giardini, lavare l’auto e insomma usare l’acqua per scopi diversi da igiene ed alimentazione. Negli altri, situati in Piemonte, la situazione è ben peggiore. L’erogazione dell’acqua è sospesa di notte e sono già in azione le autobotti. Il direttore di ARPA Piemonte ha lasciato intendere che ulteriori razionamenti dell’acqua saranno pressoché inevitabili. Nell’Italia centrale, anche Roma e la zona dei Castelli sembrano destinate a fare la medesima fine.

Però la situazione è particolarmente grave al Nord, dove la siccità ha spezzato addirittura la millenaria alleanza fra l’uomo e la vite: in Piemonte è a rischio la vendemmia. Più in generale, in Pianura Padana è sempre più difficile prelevare acqua dal Po e dunque dalla rete di canali di irrigazione che si dipartono dal fiume. Servirebbe come il pane per salvare mais, foraggio, pomodori, meloni… Come se non bastasse, la magra storica del Po è tale che, alla foce, l’acqua salata del mare risale verso l’entroterra per oltre 12 chilometri, rendendo di fatto inservibile il fiume.

Di fronte ad una situazione così estrema, l’Osservatorio delle crisi idriche che fa capo all’Autorità di Bacino del Po ha ottenuto la disponibilità da parte dei titolari delle concessioni idroelettriche a rilasciare la (poca) acqua presente nei bacini per soccorrere l’agricoltura. Si tratta però della classica coperta troppo corta: la produzione di energia idroelettrica non potrà non risentirne.

Peraltro, questo è l’unico segnale di coordinamento nei confronti di una crisi come non la si vedeva da settant’anni. Il ministro della Transizione Ecologica Cingolani si è palesato ieri, giovedì 15: eppure l’acqua è roba sua, la siccità va avanti da mesi e i razionamenti della potabile sono cominciati da giorni.

Cingolani ha annunciato in Parlamento l’istituzione di un tavolo di alto profilo per monitorare gli eventi. Per il resto, le sue sono solo state solo belle parole e promesse di interventi futuri per sistemare, fra l’altro, la rete degli acquedotti. E’ notoriamente un colabrodo e perde il 40% dell’acqua che vi viene immessa. A questo proposito, l’ARERA (Autorità di Regolazione per Energia Reti Ambiente) ha segnalato al Governo che agli enti locali servirebbero 10 miliardi del  PNRR per adeguare gli acquedotti e topparne i buchi. Il PNRR di Cingolani ne ha resi disponibili appena 4. E per il resto, ci sarà il tavolo “di alto profilo”.

GIULIA BURGAZZI

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