Armenia e Azerbaigian sull’orlo di un conflitto. Di nuovo. Stavolta c’è di mezzo il Nagorno-Karabakh, noto anche come Artsakh. Non si tratta di una scaramuccia in una regione remota, ma un altro tassello dello scontro fra la Russia e i satelliti dell’Occidente a trazione statunitense.

L’Azerbaigian ruota nell’orbita degli Stati Uniti. Al suo interno c’è il Nagorno-Karabakh, un’enclave di etnia, lingua e cultura armena. L’Armenia è vicina alla Russia e quest’ultima ha nel Nagorno-Karabakh un contingente di soldati in missione di pace: conseguenza di una guerra locale scoppiata sulla scia della dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Lo scorso martedì 13 dicembre 2022, l’Azerbaigian ha chiuso il gas al Nagorno-Karabakh: siamo in pieno inverno, alle pendici del Caucaso. A dire degli armeni, la società azera del gas sostiene semplicemente che in inverno i gasdotti a volte non funzionano e che uno di questi giorni effettuerà un’ispezione in cerca di guasti.

Quasi contemporaneamente è rimasta chiusa anche l’unica strada che dal Nagorno-Karabakh va in Armenia e di lì nel resto del mondo. Se la strada è chiusa, i circa 150 mila abitanti del Nagorno-Karabakh non escono da questa regione, e nemmeno vi entrano. La strada è conosciuta come corridoio di Lacin o Lachin ed è lunga nove chilometri. Passa in territorio azero, ovviamente.

Il governo azero dice di non avere nulla a che fare con la chiusura del corridoio. Addossa il blocco agli attivisti ambientali azeri, preoccupati per l’inquinamento causato da attività minerarie effettuate dagli abitanti del Nagorno-Karabakh.

Queste attività minerarie, a quanto si sa, vanno avanti da anni e annorum senza che nessuno si sia lamentato. Soprattutto, una protesta ambientale e un blocco stradale in Azerbaigian non sembrano particolarmente verosimili senza la regìa del governo, o almeno senza il suo silenzioso benestare.

Non risulta che il governo azero abbia intimato lo sgombero dei manifestanti. Non risulta nemmeno che esponenti di spicco dell’Occidente abbiano espresso condanne ed esortazioni a far cessare celermente il blocco.

Se il contingente di pace russo riapre la strada con le buone o con le cattive per ripristinare l’approvvigionamento di viveri, medicine eccetera al Nagorno-Karabakh, è facile immaginare la reazione dell’Occidente, che difficilmente si limiterebbe a condanne puramente verbali. Se il contingente di pace non muove un dito, la Russia incassa un altro calcetto nelle costole e una punzecchiatura.

La strada chiusa al Nagorno-Karabakh per proteste ambientali sembra il bis della tensione nei Balcani fra Kosovo filo-occidentale e Serbia filo-russa. Anche in questo caso si tratta di un incendio che divampa, o rischia di divampare, da questioni apparentemente banali che l’Occidente non si agita più di tanto per comporre. Se si continua così, prima o poi il mondo brucia.

GIULIA BURGAZZI

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