Ha fatto discutere, anche per il valore simbolico del gesto, quanto accaduto a Firenze: un ragazzo completamente ubriaco si è arrampicato sulla statua di Dante in Piazza Santa Croce. I giornali ovviamente non lo dicono ma il ragazzo è di evidenti origini straniere.

Il gesto, come detto, è involontariamente simbolico, anche se quasi certamente il ragazzo in questione non ha idea del numero di simboli che è andato a profanare.

Innanzitutto la statua di Dante, il padre della lingua e della stessa civiltà italiana, proprio nell’anno del settecentenario della morte del poeta. Poi Piazza Santa Croce: alle spalle della statua del Poeta si intravede la basilica ove si trovano “le urne dei forti” come le chiamava il Foscolo, le tombe dei grandi italiani, dove riposano Machiavelli, Michelangelo, Galileo, Ghiberti, Rossini, Gentile e lo stesso Foscolo. Piazza Santa Croce dove i fiorentini in quel 17 febbraio 1530 giocarono una leggendaria partita di calcio in sfregio alle cannonate dei lanzichenecchi di Carlo V che stavano adssediando la città, sberleffo all’imperatore da parte di un popolo che pure nella burla dimostrava una fierezza non comune.

Questo non è solo il segno tangibile della caduta della culla della Rinascimento trasformata oramai in un suk dalle recenti amministrazioni: è quasi un presagio. Quel ragazzo straniero ubriaco sulla statua di Dante ricorda un celebre quadro del pittore francese Joseph-Noël Sylvestre intitolato “Il sacco di Roma” nel quale si vedono i visigoti di Alarico che si arrampicano sulla statua di un imperatore romano nel contesto dei saccheggi dell’anno 410.

E quelle due immagini che si sovrappongono, quella dell’immigrato di Firenze e quella dei visigoti di Alarico ci ricordano anche come la moderna storiografia abbia accantonato l’immagine del barbaro che arriva al cuore dell’Impero Romano come quella di “invasore” arrivando invece a preferire quella di “immigrato”.  Storici mainstream come Alessandro Barbero hanno ampiamente scritto e parlato di questo: il barbaro era un uomo che arrivava da Paesi poveri e voleva andare “a stare meglio” all’interno del limes romano. Solo che il barbaro, un po’ per ignoranza e un po’ per “delusione” nel non aver raggiunto il benessere sperato, arrivò a distruggere quella civiltà così invidiata.

E’ quello che sta accadendo ora, sotto i nostri occhi. Non è questa la prima profanazione di luoghi della nostra civiltà da parte di stranieri. Con una differenza che separa noi dai Romani antichi: un autolesionismo per cui noi stessi stiamo partecipando volontariamente alla distruzione della nostra stessa civiltà, un po’ per quella malattia idiota chiamata “politicamente corretto” e un po’ per codardia. E un po’ per opportunismo.

I Romani poi avevano quantomeno un sistema schiavile dichiarato, e non lo mascheravano con ipocrisie buoniste. Perché è ovvio che anche il ragazzo che si è arrampicato sulla statua di Dante è una vittima: vittima di un sistema che ha bisogno di schiavi sottopagati da sbattere a raccogliere i pomodori, un povero sradicato anche lui, la cui anima è stata annientata.

Il suicidio della civiltà occidentale, e italiana in particolare, è dettato da un giro di affari basato su un mercato carne umana, sul business dell’immigrazione portato avanti dalle coop però mascherato da falso umanitarismo. Il ragazzo africano ubriaco è anche l’emblema di gente deportata, strappata alle proprie radici e ridotti oramai a relitti umani, pieni di alcol e droghe.

La più triste fine di una civiltà che si potesse avere: un suicidio consapevole in nome di affari fatti su una deportazione di massa mascherata da buonismo. Una fine ancora più ingloriosa di quella dell’Impero Romano che quantomeno non aveva mai peccato di ipocrisia. Un suicidio di una civiltà che ha tagliato le proprie radici da parte di popoli altrettanto sradicati.

ANDREA SARTORI

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