Un Qr Code per ogni capo di abbigliamento è il nuovo piano di Klaus Schwab. Il World economic forum (Wef) finanzia infatti un progetto, che dovrebbe partire nel 2025, per dotare ciascun abito di un codice unico e integrato.
Una sorta di carta di identità per vestiti, che permetterà alle case produttrici di mantenere traccia di ogni indumento realizzato, recuperare quelli dismessi, verificarne la provenienza e rivenderli. Secondo Davos, ciò renderà l’industria dell’abbigliamento più “green”. Ad aderire al progetto molte, anzi moltissime aziende. Ralph Lauren, Vestiaire Collective, Levi Strauss, Kering, Prada, Armani, Hugo Boss, e altri sono già a bordo. Addirittura Zalando, il famoso sito di vendite online, vanta il primato nell’utilizzo di uno strumento simile, insieme a Mulberry.
Il Qr Code sarà prodotto dalla compagnia Eon, con sede a New York. Il Ceo di Eon, Natasha Franck, ha spiegato che i brand non hanno più contatto con i loro capi una volta che questi sono venduti. Ciò, secondo l’imprenditrice, impedirebbe alle aziende di inventarsi nuovi modi sostenibili per guadagnare sfruttando i prodotti di seconda mano. Una cosa che ora è teoricamente impossibile fare, diviene quindi potenzialmente semplice con la tracciabilità integrata all’abito.
IL QR CODE UCCIDERÀ I MERCATINI DELL’USATO?
Franck aggiunge anche che sarà presto impossibile fare a meno dell’identità digitale per gli abiti, perché le aziende non saranno ritenute affidabili da un punto di vista ambientale, in quanto sprovviste di dati post-vendita. Anzi, azzarda una previsione e sostiene che l’Unione europea molto presto legifererà in questo senso.
E i vecchi cari mercatini dell’usato che fine faranno? Molto probabilmente spariranno. Le immaginate le bancarelle connesse con le piattaforme internazionali di gestione per abiti usati? “Se si vuol far funzionare la cosa”, prosegue Franck: “Bisogna che ogni singolo passaggio a partire dalla prima vendita venga tracciato, cosicché anche i rivenditori di abiti di seconda mano dovranno utilizzare una piattaforma condivisa. Un abito dovrà essere tracciato ovunque. Come diciamo noi, l’ubiquità sarà la nostra forza”.
Inoltre non tutti saranno autorizzati a rivendere i prodotti e parte dei proventi dovrà tornare alla casa produttrice. Questa potrà decidere se rivendere gli abiti così come sono o se apportare modifiche. Eon è convinta che la cosa piacerà moltissimo ai consumatori, che si sentiranno più al sicuro una volta indirizzati verso negozi di seconda mano autorizzati dallo stesso brand alla vendita del prodotto. Inoltre gli utenti potranno ottenere importanti informazioni sull’abito e su coloro che lo hanno posseduto o affittato in passato con un semplice click. Intendiamoci, non nome e cognome, ma per quanto e dove l’abito si è trovato dopo che ha lasciato la fabbrica.
NON POSSEDERAI MANCO I TUOI ABITI E SARAI FELICE
Ma si sa, dove c’è traccia di identità digitale e di Qr Code c’è il Wef. I signori del Forum quindi non potevano perdere questa golosissima occasione. Secondo quelli di Davos, non è solo possibile ma addirittura essenziale dotare gli abiti di una carta d’identità digitale. Per gli esperti del Wef l’industria tessile è in assoluto una delle più inquinanti. Si pensi che l’industria tessile genera il 10% delle emissioni di CO2, più del comparto spedizioni e dell’aviazione messi insieme. Quindi, l’Id sugli abiti non è un’opzione, ma un must. Questo ci permetterà in futuro di non avere prodotti di proprietà, ma in affitto, e di abbattere fortemente l’impatto ambientale, senza rinunciare allo stile.
D’altra parte com’è che recita il mantra di Davos? Non possederai nulla e sarai felice. Prima ti tolgono la casa, poi l’auto e infine gli abiti. Eppure il Wef giura che è solo per la sostenibilità. Circa il 57% degli abiti finiscono nelle discariche, abbandonati tra i comuni rifiuti dai proprietari che li gettano. Una volta che il prodotto è venduto, sparisce appunto dal raggio di controllo dell’azienda produttrice. Pare tuttavia assolutamente lecito il dubbio che dietro i progetti dei benpensanti ultra global-ecologisti ci sia altro, se non altro perché in questa economia circolare, dove nulla sparisce ma tutto è rimesso in circolo, a guadagnare sono sempre i soliti.
Le aziende guadagnano prima, durante e dopo la vendita. E gli utenti? Beh, ci potrà sempre essere una app che dice all’utente che possiede troppi abiti e che deve rimettere in circolo il surplus permettendo ad altri di vestirsi. Ovviamente per salvare il pianeta dalle emissioni di CO2. Oppure che impedirà di possedere abiti se non si avranno certi requisiti. Insomma, sempre la solita vecchia storia che ormai conosciamo.
MARTINA GIUNTOLI