La rielezione di Sergio Mattarella ha, di fatto, istituzionalizzato la fine dei partiti e la blindatura del potere da parte di alcune forze ha sancito la fine della democrazia in Italia. Non si sa ancora se in via definitiva o solo temporanea come accadde con la parentesi fascista.
I giornali, come il Corriere della Sera, parlano di “macerie dei partiti”. E quindi, se i partiti non vanno più bene, cosa accade? I partiti sono il cemento della democrazia, in quanto espressione della volontà popolare. Eliminandoli andremo dove vogliono portarci sin dai tempi di Monti, se non da quelli di Mani Pulite: ad una tecnocrazia in stile pugno di ferro. La rielezione di un vecchio notaio che ha firmato decreti incostituzionali e, a cascata, la riconferma di un sinistro tecnocrate.
I partiti escono con le ossa rotte. Soprattutto il centrodestra, e non a caso. Il centrodestra, pur con i suoi immensi limiti, andava ridotto all’impotenza. Andava distrutto, in quanto non può esistere una visione alternativa. Certamente, l’incapacità di Salvini, dovuta ad un dilettantismo politico unito a mancanza di coraggio, ha dato una grossa mano, e l’ha data anche alla Meloni che ora può rivendicare il suo “candore” e la sua coerenza (sempre facile, quando si sta all’opposizione) oltre a chiedere di “rifondare” la coalizione. Anche il Partito Democratico, che pure rappresenta l’élite, non esce comunque bene: ha fallito nel suo obiettivo di portare Draghi al Quirinale. E per farlo il PD aveva persino presentato, lo scorso dicembre, un DDL per impedire la rielezione del Capo dello Stato. Anche Letta, presentato come il vincitore, non ha raggiunto il suo obiettivo e ha ripiegato sul Mattarella bis, e nel PD ora si mette in discussione la segreteria.
Nel Movimento 5 Stelle si sta addirittura ai materassi: Conte accusa Di Maio di averlo pugnalato alle spalle. Il Ministro degli Esteri gli risponde con sussiego (e con la poltrona messa al sicuro) ventilando una sostituzione della leadership. Entra a gamba tesa perfino Di Battista, a prendere le parti dell’avvocato degli italiani contro il suo ex amico del cuore.
In tutto questo sconquasso, persino il Presidente uscente/rientrante non ne esce benissimo, visto quello che aveva detto e ribadito, ma quantomeno se la cava col “senso di responsabilità”. Anzi, dà l’idea dell’autosacrificio per senso istituzionale a fronte di partiti che fanno la figura dei bambini capricciosi. Ne “esce bene”, neanche a dirlo, il solito Matteo Renzi oramai kingmaker. Leader di un partito con percentuali da prefisso telefonico ma che ha compreso che la popolarità non conta più, perché il contesto democratico è venuto meno.
E’ il bis della rielezione di Napolitano? Non esattamente. Quelle erano state le prove generali: ma il tentativo tecnocratico di Monti era fallito, i partiti conservavano, nonostante tutto, una grande vitalità ed era in grande ascesa il fenomeno del Movimento 5 Stelle che appariva come il nuovo che avanzava sulle macerie berlusconiane. Si poteva ancora credere ad un rinnovamento della democrazia.
Ora vediamo una blindatura netta del potere con la scusa dello Stato di emergenza. Il terzo tassello, oltre a Mattarella e Draghi è Amato alla Corte Costituzionale e ha subito affermato che la Scienza ha una prelazione in termini di diritto costituzionale. Mettendo così a tacere le accuse di incostituzionalità.
Le elezioni saranno nel 2023. Stando così le cose le due forze che furono l’anima del populismo e del sovranismo, ovvero Lega Nord e Movimento 5 Stelle, saranno scomparsi per disaffezione degli elettori viste le mosse sgangherate dei loro leader in questa patetica farsa. I giornali continueranno a dire che la politica ha fallito. Reggerà forse la Meloni, quella che ne esce meglio, ma l’elettorato, oramai scottato delle esperienze pentastellata e leghista, non si fida. Resterà il PD, che oramai si avvia a diventare una sorta di “partito unico” come lo fu il PNF dal 1925 al 1945. Ma il potere sarà in mano essenzialmente a tecnocrati, economisti e magistrati, ben rappresentati dal banchiere a Chigi e dell’ex giudice al Quirinale.
ANDREA SARTORI
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