“La scuola non è un luogo dove accumulare sapere, ma dove tenere insieme la complessità del mondo digitale” queste le agghiaccianti parole del Ministro Dell’Istruzione Patrizio Bianchi alla 4Weeks4Inclusion (ovviamente un po’ di inglesorum al posto della obsoleta lingua di Dante non fa mai male, vero ministro?).

La scuola non è un luogo dove accumulare conoscenza dovrebbe far sobbalzare sulla sedia. La scuola è un luogo dove conoscere, è il luogo per eccellenza deputato alla conoscenza. Tra l’altro il ministro dà una spiegazione allucinante: “Oggi c’é molta informazione”, confondendo evidentemente “informazione” con “sapere”: perché io non formo il mio sapere sui blog o sui giornali, ma sui libri. A Bianchi sfugge che esiste la Storia oltre alla cronaca. Ma al ministro interessa solo il digitale, e il digitale per “formare al lavoro”.

Ora, che si sia in un regime è oramai cosa acclarata. Gli elogi a Draghi ripetuti in coro da tutti i media e da tutti i politici ricordano in maniera agghiacciante gli elogi al Duce, la messa alla berlina di chi dissente ricorda addirittura la Rivoluzione Culturale maoista. Ma c’é un ma grosso come una casa: all’istruzione almeno Mussolini chiamò Giovanni Gentile, filosofo, che aveva ben chiara un’idea: la scuola serviva per formare sapere. A cosa serve il sapere? A ragionare. Lo studio dei Promessi sposi voluto dal Gentile, ad esempio, non solo serve a farci leggere l’opera che fissò la nostra lingua o anche un libro scritto così bene che può insegnarci a scrivere e parlar bene, ma ha pure aiutato molti di noi a riconoscere il pericolo che ci sovrasta: come non rivedere nelle follie segregazioniste dei vaccinisti la “caccia all’untore” e la Colonna Infame stigmatizzate dal Manzoni? E questo è solo uno dei mille esempi che si potrebbero fare. I totalitarismi del passato volevano una classe dirigente colta. L’anomalia dell’attuale totalitarismo è anche questa: il voler una classe dirigente ignorante, i cui modelli sono gli Speranza, le Gelmini e i Di Maio, marionette manovrabili.

Quindi via questo “vecchiume”, specie se di stampo umanistico, perché sono le discipline umanistiche quelle che formano lo spirito critico che ti fa riconoscere un regime. Bisogna puntare solo sul digitale. Quella cosa certamente utilissima in alcuni casi, ma che ha impoverito la mente (quanti oggi fanno fatica a leggere qualcosa di più complesso di un post su Facebook?). Ma cosa interessa a Bianchi?

“Bisogna formare la gente a usare il digitale per il lavoro”. Ovvero la scuola deve essere propedeutica a quel “produci, consuma, crepa” cantato da Giovanni Lindo Ferretti e dai suoi CCCP.

Già un anno fa, ancora in epoca Azzolina e banchi a rotelle, il filosofo Diego Fusaro denunciò la deriva della scuola, non più vista come luogo deputato alla formazione di uomini consapevoli, ma trasformata in una fabbrica di servi. Non servono più uomini consapevoli e ben formati, ma servono persone “produttive” e la cui produttività sia a esclusivo vantaggio di una nuova oligarchia che si è oramai formata e che tiene in mano le redini dello Stato.

“Se metti insieme rivoluzione digitale e rivoluzione ambientale si vede la straordinarietà dell’epoca che stiamo vivendo” continua a delirare Bianchi che, si capisce, se ne impippa fortemente del valore formativo della scuola. Da diversi anni la scuola è una centrale di indottrinamento come non accadde nemmeno sotto il fascismo, e le rivoluzioni digitale ed ambientale serviranno tranquillamente alla bisogna: col digitale si ridurrà la capacità di lettura di un testo da parte dei ragazzi. In seguito le teste svuotate verranno riempite di mantra governativi sul gender, sull’ambiente, sul Santo Siero che sempre sia lodato (l’ora di religione sarà occupata da San Pfizer o dal messia Greta? Ai posteri l’ardua scoperta…) per formare tanti bei robottini irregimentati.

Esiste forse una sola via: la scuola parentale, che in effetti sta conoscendo un’espansione mai vista prima in Italia. Delegare allo Stato l’educazione dei figli oggi significa distruggerne la mente.

ANDREA SARTORI

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