
Il “fratello” Berlusconi, statista irrisolto: non fermò i nemici dell’Italia
«Era praticamente impossibile che Silvio Berlusconi non sapesse che cosa lo aspettava, durante l’ultimo fatale ricovero: perché, da bravo massone, era anche un notevole cultore dell’astrologia. Incrociando la sua carta natale con i transiti in arrivo, non era difficile cogliere i presagi inequivocabili di un appuntamento infausto».
A fornire una lettura così spiazzante, riguardo alle ultime ore del leader di Forza Italia, è il massone Gioele Magaldi, che nel 2010 indirizzò ben due lettere aperte al “fratello Silvio Berlusconi”. Spiega oggi Magaldi, ai microfoni di “Border Nighs”: «Volevo avvertirlo del pericolo che, allora, stava correndo: paralizzato nel suo immobilismo, non si era accorto della trappola che stava per scattare, a spese sue e del sistema-Italia».
IL GOLPE DEL 2011
Per inciso, si stava approssimando il golpe bianco orchestrato dall’élite neoliberista, tramite le sue pedine: la Bce, Draghi e Napolitano. Obiettivo: disarcionare il Cavaliere, col pretesto dello spread pilotato ad arte, per imporre la brutale agenda Monti. Un rigore di bilancio che Berlusconi – all’epoca distratto dalle “cene eleganti” di Arcore – non intendeva comunque imporre agli italiani.
Il torto politico del leader del centrodestra? «Nel 2008 aveva vinto largamente le elezioni. Il mondo intero vacillava, dopo la crisi finanziaria di Wall Street. E nubi nere si andavano addensando proprio sull’Italia. Ma lui – pur essendo ferratissimo, in materia di economia – non si inventò assolutamente niente, per scongiurare il peggio. E così poi le cose precipitarono».
MAGALDI: SILVIO MASSONE
Autore del libro “Massoni” (Chiarelettere, 2014), Magaldi lo descrive nei minimi dettagli, il complotto contro il Belpaese. Dietro a quell’élite politicamente reazionaria si muovevano precise filiere massoniche sovranazionali. Cioè: le vere registe dell’austerity europea, decisa a tavolino per instaurare – tramite l’insicurezza economica indotta – un regime post-democratico basato sulla sottomissione sociale.
Presidente del Movimento Roosevelt (di ispirazione socialista liberale), Magaldi canta fuori dal coro, di fronte alla triste dipartita di Berlusconi. «Un uomo spesso ingiustamente e ferocemente criticato, perseguitato da odiatori magari invidiosi. Troppe volte gratuitamente demonizzato: cosa che impedisce la formulazione di un giudizio lucido, nel bene e nel male».
FORZA ITALIA: ILLUSIONI
Fuori discussione, per Magaldi, le “luci” del personaggio: gioviale e vulcanico, imprenditore brillante. Visionario creatore di soluzioni urbanistiche all’avanguardia, addirittura “green”. E poi, pioniere di una televisione alternativa alla paludatissima Rai. I trionfi del suo Milan? «Altro caso paradigmatico, a riprova della tempra dell’uomo: non è da tutti, partendo da umili origini, arrivare a diventare proprietari della propria squadra del cuore e trasformarla in un team vincente, a livello mondiale».
Tutte qualità – osserva Magaldi – che disegnano la fisionomia “titanica” di un primattore infaticabile e anche geniale. Persino la sua “discesa in campo”, sparigliando le carte degli architetti del dopo-Tangentopoli (che immaginavano di consegnare il paese all’ex Pci, incaricato di eseguire alla lettera il diktat privatizzatore europeo) poteva lasciar pensare a una specie di rinascimento, nella politica italiana. Sia pure, beninteso, in stile Silvio: «Si comportò da corsaro: scongelò e recuperò l’elettorato post-fascista, ma senza pretendere patenti di antifascismo».
LA FINE DI GHEDDAFI
Grandi promesse: e poi, invece, niente. Il Berlusconi politico ha come rinunciato ad essere se stesso: all’ultimo minuto, si è spesso tirato indietro. «Si dipingeva come un liberale, ma forse era più vicino al temperamento democristiano. Poi: era davvero così democratico, nel suo stile di governo? Più che un vero liberale, sicuramente è stato un libertino. Ma forse, un uomo non del tutto libero: proprio perché si è lasciato spaventare. E non avrebbe dovuto, vista la potenza – anche economica – di cui poteva disporre».
Vari analisti fanno notare come la sua stella – anche elettorale – si fosse oscurata all’indomani del drammatico euro-siluramento del 2011. Per inciso: un anno dopo la feroce campagna bellica occidentale in Libia, costata la vita a Muhammar Gheddafi. Proprio con il Colonnello di Tripoli, Berlusconi aveva stretto accordi energetici molto vantaggiosi, per noi, sulla scia delle storiche intese mediterranee inaugurate all’epoca di Aldo Moro.
L’AMICO PUTIN
Problema nel problema: l’allora primo ministro italiano aveva provato fino all’ultimo a sottrarsi all’impegno militare contro la Libia. Possibile che qualcuno, a Washington, abbia cominciato a dubitare del suo sbandierato atlantismo. Era diventato un personaggio scomodo, e quindi “da scaricare”, anche per via del suo legame con Putin?
Dieci anni prima, Berlusconi aveva infatti gestito lo spettacolare incontro di Pratica di Mare: la stretta di mano tra Bush e Putin avrebbe comportato, per quest’ultimo, la partecipazione – per vari anni – a vertici Nato, nel quadro di un’inedita cooperazione (“antiterrorismo”) anche con la Russia. Seppellendo di colpo le storiche diffidenze della guerra fredda.
LA VERITÀ SULLA GUERRA
Poi, evidentemente, gli Usa si sono accorti che l’uomo del Cremlino non era malleabile: non avrebbe mai fatto da zerbino, come invece Eltsin. Di qui la lunga marcia – intrapresa ai tempi di Obama e Hillary Clinton – per fare il vuoto, attorno allo Zar. Motivo in più per far cadere in disgrazia l’amico italiano Berlusconi, privando i russi di un alleato strategico?
È un fatto: dei nostri politici, nell’ultimo anno, Berlusconi è stato l’unico a evitare di criminalizzare Putin, riguardo al dossier Ucraina, ricordando piuttosto le atrocità commesse da Kiev nel Donbass. Poche ore prima dell’ultimo ricovero, addirittura, ha telefonato a Michele Santoro: esternandogli tutta la sua preoccupazione per l’escalation in corso e, al tempo stesso, per l’inadeguatezza della classe politica italiana di fronte a una crisi così grave.
LA PAURA DEL CAVALIERE
Dal canto suo, Gioele Magaldì preferisce concentrare lo sguardo sull’eterno problema di fronte al quale Berlusconi si sarebbe arenato: l’incapacità di prendere decisioni davvero scomode. «Anni fa, giustamente, svariate voci di Forza Italia criticavano l’assetto dell’Ue. Ma poi che cosa ha fatto, il partito, per cambiare la situazione? Assolutamente niente: si è accodato al peggior finto-europeismo di Bruxelles».
Di Berlusconi, Magaldi parla sempre con profondo rispetto umano: a maggior ragione oggi, di fronte alla morte. Esprime sostanzialmente un rammarico: l’uomo aveva i numeri per vincere davvero, e magari far vincere l’Italia. Ma non avrebbe osato farlo, fino in fondo. «In lui ha prevalso il timore: il rischio che il suo impero economico venisse colpito. Nel 2011 infatti si fece da parte quando i suoi fedelissimi – nella holding di famiglia – lo scongiurarono di dimettersi, vedendo in pericolo il business».
NON OSÒ OPPORSI A MONTI
Non è una sentenza, quella di Magaldi: il suo è un giudizio politico, che sa di dispiacere. «E credo fosse anche il suo, del “fratello” Silvio: consapevole di aver mancato un grande traguardo, pur avendone i mezzi, dopo una vita di strabilianti successi». In concreto: «Nel fatidico 2011 non era obbligato, a rassegnare le dimissioni: poteva anche decidere di tener duro e resistere. La stoffa, in teoria, non gli mancava».
Oppure: «Persino dopo aver fatto il famoso passo indietro, sotto la tempesta (artificiale) dello spread, poteva comunque non votarla, la fiducia al governo Monti. E poteva – anzi, doveva – non votare l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione. Se così avesse fatto, poi magari avrebbe stravinto: proprio come la Meloni, rimasta all’opposizione del governo Draghi. Invece si illuse che potesse essere utile, baciare la mano che l’aveva slealmente bastonato».
IL MASSONE SILVIO
In un’Italia ancora frastornata dalla perdita di un personaggio così decisivo, Magaldi invita a rivalutare l’uomo e l’imprenditore, distinguendolo dal politico. E anche a considerare il profilo massonico di Berlusconi. «Dopo lo scandalo P2 minimizzò, in modo scherzoso, la sua appartenenza alla loggia di Gelli. Ma in realtà – in seguito – intraprese un serio percorso iniziatico».
«Per otto anni – nel Grande Oriente guidato da Armando Corona (che poi era l’ambiente di Cossiga, Pisanu, Dell’Utri e Carboni: il gruppo che i media avrebbero ribattezzato P3) – il “fratello Silvio” si mise essenzialmente a studiare, a fondo, anche la prospettiva esoterica e misteriosofica: lo comprova lo stesso corredo simbolico, egizio, del mausoleo che ad Arcore ospiterà le sue spoglie».
DECLINO E RAMMARICO
Era consapevole, Berlusconi, di non essere riuscito a fare tutto quello che poteva, sul piano politico? Ed è forse questa nota di inconfessabile amarezza ad averlo silenziosamente accompagnato negli ultimi anni? Alle spalle, del resto, scontava una lunghissima storia fatta anche di accanite persecuzioni: giudiziarie e giornalistiche. Fino all’umiliante esclusione dal Parlamento e alla quasi-estinzione elettorale del suo partito.
Altro dettaglio che probabilmente aiuta a illuminare la vera cifra di Silvio Berlusconi: «Le grandi superlogge sovranazionali non lo vollero mai accogliere: di lui non si fidavano – dice sempre Magaldi – perché lo consideravano un Maverick imprevedibile, non controllabile. Il che, francamente, può essere letto anche come un titolo di merito».
Se è così, questo può aggiungere un motivo di rimpianto: per un grande personaggio dalle mille facce. Sfortunato e fortunatissimo, empatico e sfrontato, dispotico e generoso. Un leader controverso e forse irrisolto, come statista. Per via di quell’appuntamento con la storia: tenere l’Italia al riparo dai suoi peggiori nemici.
GIORGIO CATTANEO