Per quanto tempo ci siamo sentiti al sicuro?

La mia generazione anni ‘70, in Italia, aveva sperimentato solo la pace, e la scia lunga del benessere frutto del boom economico post bellico. 

Nati dopo il ‘68; troppo piccoli per essere memori del ‘77, degli “anni di piombo“e dell’omicidio Moro (si saltò la scuola, questo lo rammento).

Ustica, l’attentato a Giovanni Paolo II e la strage di Bologna quasi rimossi (ne fui tenuta al riparo: ero una bambina). 

Lo schiaffo è arrivato con la guerra nella ex-Jugoslavia, così atrocemente raccontata nel romanzo di Margaret Mazzantini, Venuto al mondo: allora ho toccato il senso di “genocidio” e “pulizia etnica”, benché li avessi già studiati a scuola, in riferimento allo sterminio degli ebrei. 

Subito dopo, ecco le stragi di Capaci e via D’Amelio. Mi ricordo dov’ero, con chi, e cosa stavo facendo. Provai un enorme dolore, e molta rabbia, ma continuavo a considerarmi al riparo da quella violenza. 

Poi un salto di quasi dieci anni: l’11 settembre 2001. Mi ricordo dov’ero, con chi, e cosa stavo facendo. 

Pensai: siamo in guerra. E ho avuto paura, per la prima volta, di perdere il “mio” universo, con i suoi punti fermi che consideravo granitici. Senza dubbio ho perso l’innocenza, perché è cominciata in quel momento, nella mia percezione, la decadenza delle magnifiche sorti e dell’inviolabilità dell’Occidente, luminoso esempio di edonismo reaganiano anni ‘80, mai davvero terminati. 

Sembrava che ovunque andassimo, lì potesse esplodere un kamikaze. E che l’ordigno micidiale fosse nascosto proprio nella boccetta di profumo che fino al giorno prima avevi messo nel beauty-case in cabina, sull’aereo, e poi non si era potuto più. 

La forza delle profezie auto-avverantisi è micidiale: pensa a una rogna, e quella si materializza. Forse le abbiamo immaginate, tutte le brutture di oggi, prima che ci piombassero in testa. Forse qualcuno le ha magistralmente evocate. 

Ci siamo sentiti al sicuro per poco più di cinquant’anni. 

Noi non eravamo stati la Germania spezzata in due, non l’URSS, non la Spagna di Franco e la Grecia dei Colonnelli, e nessuno dei Paesi in cui governava ancora un regime assoluto e dispotico. Noi eravamo liberi: emuli degli Stati Uniti d’America, la più grande democrazia al mondo. Almeno così mi sembrava. 

Non eravamo neppure il Cile di Pinochet, o l’Argentina dei Generali, dove erano accaduti impunemente fatti di un orrore che è difficile raccontare. 

Ci è riuscito il regista Marco Bechis, con una trilogia costituita da due film e un documentario. 

In Garage Olimpo del 1999 si narra la storia di Maria, una giovane attivista contro la dittatura militare in Argentina (dal 1976 al 1983), che viene prelevata da casa e condotta in un seminterrato (quello del titolo), torturata e alla fine gettata in mare da un volo “della morte”, mentre è ancora viva, trasformandosi in una delle decine di migliaia di desaparecidos. 

Con Hijos-Figli, nel 2001 Bechis si concentra sulla vicenda terribile dei figli che le desaparecidas partorivano mentre erano tenute prigioniere, e che venivano regalati ai torturatori e agli assassini della Giunta militare. 

Infine, nel 2015, il regista gira Il rumore della memoria. Il viaggio di Vera dalla Shoah ai desaparecidos. La protagonista del docu-film è Vera Vigevani Jarach, il cui nonno materno fu trasportato ad Auschwitz dal Binario 21, a Milano, e ucciso nelle camere a gas. Lei subì l’abominio delle leggi razziali e l’espulsione da scuola. E sua figlia Franca divenne, a soli 18 anni, una desaparecida, in Argentina, dove Vera si era rifugiata con la famiglia, fuggendo dall’Italia fascista. Un fil rouge che lega tre generazioni, sotto il segno di una lucida follia autoritaria, declinata secondo gli umori di ciascuna epoca. 

Bechis stesso, di madre cilena e padre italiano, fu arrestato, tenuto prigioniero e da ultimo espulso dall’Argentina del golpe militare. 

Nel suo libro autobiografico uscito quest’anno: La solitudine del sovversivo, afferma che per essere testimoni bisogna vivere un’esperienza sulla propria pelle. 

Anche noi siamo testimoni di questi tempi oscuri: non dimentichiamolo. 

REBECCA RAINERI

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