Nel suo abituale contributo al nostro mensile “Visione. Un altro sguardo sul mondo”, Enrica Perucchietti si concentra sul tema della censura evocando lo psicoreato di Orwell, di fatto sdoganato a processo di controllo delle opinioni sgradite anche nella disastrata democrazia in cui ci troviamo.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un’accelerazione di alcuni processi di trasformazione della società che erano in atto, sottotraccia, da tempo, ma che la pandemia prima e il conflitto russo-ucraino poi hanno rivelato, portandoli a galla e mostrandoli anche agli osservatori meno accorti.
La crisi sanitaria ha svelato come i sintomi di un cambiamento di paradigma – una mutazione sociale, economica, politica e antropologica – fossero in potenza nella nostra società, pronti ad affiorare alla prima emergenza globale. In poche settimane, ci siamo trovati catapultati in una vera e propria distopia, tra monitoraggio dei cittadini, dispiegamento di droni, multe selvagge, proposte di braccialetti hi-tech per il distanziamento sociale, distanziamento verticale sui mezzi pubblici, psicopolizia, neolingua con l’invenzione di termini ad hoc per marchiare i dissidenti (negazionista, No Max, No Vax, ecc.), censura sul web, trattamenti sanitari obbligatori, delazione, criminalizzazione e patologizzazione del dissenso.
La paura per l’emergenza sanitaria ha portato alla costituzione di una specie di psicopolizia, in cui i cittadini hanno vestito con solerzia i panni dei delatori, pronti a segnalare chiunque secondo i loro parametri non rispettasse le norme. Si è così creata una sorta di caccia all’untore di manzoniana memoria, con la segnalazione virale dei comportamenti ambigui e la creazione su Facebook di gruppi ove denunciare gli eventuali trasgressori dei divieti.
Insomma, la paura – come abbiamo analizzato nel quarto numero di Visione. Governare con la paura – ha trasformato in novelli psicopoliziotti i cittadini, fomentati dagli organi di stampa e dalla politica che ha invocato misure sempre più stringenti, persino liberticide.
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