Siamo in un grande ospedale del Nord. Una donna aspetta di essere sottoposta alla visita specialistica richiesta dall’hub vaccinale della sua città, affinché sia valutata l’esenzione dal marchio verde.

Questa donna si sente umiliata, perché ha trascorso la quasi totalità della sua esistenza lottando contro la malattia, e solo da qualche anno è rinata, grazie a una cura che l’ha rimessa al mondo, che le ha consentito di fare finalmente scelte libere, nel privato e nel lavoro, dopo tanta cattività, verso una direzione che ha la presunzione di chiamare “il senso dei giorni che vivo”.

Si domanda chi sia autorizzato a decidere del suo futuro, come fosse un gioco. A chi sia costretta a raccontare i suoi segreti più intimi, ed esibire le sue ferite.

Quando entra nell’ambulatorio, ha un groppo in gola, ma vuole mostrarsi forte, dignitosa, calma.

Nonostante la documentazione, ponderosa, le evidenze, cristalline, il buonsenso, condiviso da lei e dal medico che ha di fronte, esce sconfitta dal confronto con un sistema feroce e folle, indifferente ormai a qualsiasi richiesta d’ascolto.

Il sanitario, dopo aver consultato la bibbia degli eccipienti del siero magico, ripete a memoria alla paziente ciò che l’obbligano a dire: “Il vaccino la proteggerà, lei è fragile, il Covid è una brutta bestia”.

La donna trattiene il respiro il più a lungo possibile perché non vuole piangere, non vuole mostrare il fianco. Pensa, tra sé e sé: “Lei non immagina quanto sono resistente, lei non ha la minima idea di quello che sono stata capace di sopportare, nella certezza che il mio destino fosse buono, e che le prove sono date a chi è in grado di superarle”.

Alla fine, vomita un urlo impastato di singhiozzi e tremiti. Grida che è osceno, ciò che sta avvenendo.

“Dottore, se avesse la mia storia, si sottoporrebbe ai rischi di questo trattamento spacciato per panacea della peste del secolo? Imporrebbe a coloro che le sono più cari un tale abominio, che non offre alcuna garanzia di immunità perenne, come un vaccino dovrebbe, per una malattia che ha un impatto minimo sulla popolazione, che può essere asintomatica, e che nel caso si manifestasse – e io credo di averla avuta a marzo 2020! – se curata tempestivamente a domicilio con farmaci efficaci e poco costosi, si risolverebbe positivamente?”.

Bingo.

La donna ha squarciato la corazza del medico, a cui cade la maschera e si mostra per quello che è: ancora un essere umano. Le risponde che comprende, che non è certo contento di doversi sacrificare per la terza dose, che ha due figli, che vorrebbe aiutarla, ma non può, perché ribellarsi all’interno del sistema è difficile, persino pericoloso.

Le racconta di un’infermiera del reparto, pluriallergica, con molti episodi di shock anafilattico alle spalle. Ha ricevuto un ultimatum: se non si vaccinerà, verrà licenziata. I colleghi stanno organizzando l’equipe per vaccinarla in ospedale, con presente un rianimatore, e tutto quello che serve perché non muoia, nel caso avesse una reazione avversa.

Ha un solo nome, questo indicibile orrore: tortura.

“Io raccomando che anche lei sia vaccinata sotto copertura del farmaco che le ha regalato una nuova vita, per scongiurare qualsiasi evento infelice: non posso fare di più, mi dispiace. Le faccio i migliori auguri”.

Si congedano, la donna si volta verso il medico: “Auguri a lei, dottore. Un giorno non lontano i responsabili della paura e della sofferenza che fanno tremare i nostri cuori, saranno chiamati a giudizio”.

“Speriamo, signora”.

 

REBECCA RAINERI

 

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