Un nuovo fronte oltre all’Ucraina? Con la crisi fra Serbia e  Kosovo, quel pochissimo che resta della pace in Europa balla sull’orlo di un vulcano. Negli ultimi giorni, altre barricate per le strade, ultimatum (finora disattesi) per la loro rimozione, posti di frontiera chiusi, esercito serbo in stato di massima allerta – praticamente, pronto al combattimento – e anche spari in prossimità di una pattuglia della Nato.

L’epicentro della crisi è il Nord del Kosovo, dove la maggioranza della popolazione è di lingua e cultura serba. Tuttavia in Kosovo, nel complesso, sono ampiamente maggioritarie la lingua e la cultura albanese. A torto o a ragione, i serbi del Kosovo si sentono osteggiati e perseguitati.

Il nocciolo della questione tuttavia non è (solo) etnico. La Serbia, unica in Europa, è politicamente vicina alla Russia. Nel 2008, il Kosovo si è staccato unilateralmente dalla Serbia – praticamente, una Crimea senza referendum – ma la Serbia non riconosce la sua indipendenza. Il Kosovo si autogoverna con il protettorato delle Nazioni Unite, ma di fatto è omogeneo all’Occidente: può essere considerato un protettorato di Nato e Unione Europea, nella quale ha fatto ufficiale domanda di ingresso pochi giorni fa.

In questo contesto, problemi etnici in sé modesti e risolvibili assumono proporzioni semplicemente terrificanti. La faccenda delle auto kosovare circolanti con targa serba è arrivata ad un passo dall’irreparabilità prima di essere disinnescata.  Ora la questione è l’arresto, da parte delle autorità kosovare, di un ex poliziotto di etnia serba.

I problemi etnici divampano solo quando manca la volontà politica di risolverli accordando alle minoranze opportune garanzie linguistiche, economiche e culturali. Qualcuno ricorda quando, negli anni ’60, in Alto Adige il fronte di liberazione sudtirolese, per ottenere l’unificazione con l’Austria, faceva saltare con la dinamite i tralicci delle linee elettriche? Il perfetto esempio di un conflitto su base etnica e linguistica felicemente composto, anche se ci furono bombe, morti e feriti.

Perché in Kosovo la questione serba non trova una soluzione del genere? Solo perché, probabilmente, in questo caso le due parti in causa si situano sui lati opposti della barricata geopolitica.

Allo stato attuale dei fatti, tuttavia, nessuno ha fatto il passo decisivo per trasformare in un aperto conflitto la crisi fra Serbia e Kosovo.

La Serbia, pur avendo l’esercito pronto al combattimento e pur promettendo che non lascerà soli i “fratelli” che vivono in Kosovo, non ha sparato un colpo e non ha varcato il confine. La “missione di pace” della Nato, dal canto suo, non ha rimosso le barricate innalzate dai serbi in Kosovo, anche se il governo kosovaro ha chiesto che lo facesse.

Nello stesso modo, su scala più ampia, finora sia la Nato sia la Russia si sono adoperati per evitare l’allargamento della guerra in Ucraina. La faccenda del missile caduto in Polonia è significativa ed esemplare.

Resta il fatto che i contatti diplomatici fra Russia e Occidente ora sono praticamente nulli: e praticamente nulle, in modo simmetrico, sono le possibilità di risolvere la crisi fra Serbia e Kosovo. In qualsiasi momento, un incidente involontario potrebbe far esplodere la polveriera. Ma la tensione, prevedibilmente, sarà comunque tenuta in caldo e l’Europa, volente o nolente, dovrà ballare sull’orlo del vulcano. Il conflitto così sarà pronto a divampare non appena l’Occidente, o la Russia, avranno interesse ad allargare la guerra che li vede contrapposti in Ucraina.

GIULIA BURGAZZI

 

 

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