Nonostante la stampa italiana non perda occasione per magnificare i risultati del governo Draghi, specialmente in economia, sottolineando i dati incoraggianti ed in costante rialzo della crescita del Pil (ora si parla del 7% annuo), sull’economia italiana si allunga un’ombra inquietante; il ritorno dello spread.
Il differenziale tra il rendimento dei titoli italiani e tedeschi ha ripreso a crescere e ha toccato oggi il suo massimo da oltre un anno, essendo passato in poco tempo da 112 a 132 punti base.
Come se non bastasse le previsioni sono di un ulteriore aumento del dello spread (e quindi degli interessi che dobbiamo pagare sul nostro debito) che secondo Citigroup potrebbe arrivare a 150 punti.
E’ quasi una nemesi storica; proprio durante la sua legislatura, mentre in patria (ammesso che lui ne abbia una), Draghi viene celebrato come il salvatore della Nazione e dell’UE gli spread, la vera minaccia alla tenuta del sistema monetario comune, tornano a colpire i Paesi del sud del continente.
Non è solo l’Italia, infatti, che vede un aumento dei rendimenti sui suoi titoli, il decennale spagnolo è passato in poche ore da 0,54% a 0,64%, quello portoghese da 0,44% a 0,57%.
La ragione di queste turbolenze, che promettono di non essere passeggere perché legate a difetti strutturali dell’unione monetaria, vanno cercate in una scadenza che si sta avvicinando: fine marzo 2022. Per allora la BCE terminerà il suo programma Pepp (ossia il programma di acquisto dei titoli del debito pubblico da parte della Banca Centrale Europea) di cui beneficiano in particolare i Paesi del sud, primo fra tutti l’Italia.
Sono due i programmi con i quali Francoforte acquista bond e titoli di Stato europei: il Pepp (il programma pandemico) con cui compra ogni mese titoli per 70 miliardi di euro, e l’App, con cui ne acquista altri 20 miliardi. Da aprile solo il secondo rimarrà certamente in vigore.
«Allo stato attuale mi aspetto che il programma di acquisti pandemici Pepp termini alla fine di marzo. Cosa la Bce farà successivamente? Questo è un tema su cui discuteremo al prossimo meeting del consiglio, a dicembre». E’ stata questa dichiarazione, rilasciata da Christine Lagarde il 28 di ottobre, ad innescare il rialzo dello spread.
In sostanza la governatrice della BCE ha confermato che da fine marzo in poi i titoli degli Stati ad alto debito non saranno più protetti dal paracadute della BCE, e che per giunta da Francoforte non sono previste altre misure per evitare un brusco atterraggio.
I mercati avevano messo in conto la fine del Pepp, ma il mancato annuncio di nuove misure da prendere, dopo la fine del programma pandemico, per evitare scossoni sui mercati, ha sorpreso diversi osservatori.
Il parziale cambio di approccio della Banca Centrale governata dalla Lagarde è in linea con quello operato da diverse banche centrali che hanno avviato, o sono sul punto di avviare,una riduzione degli stimoli monetari: La banca centrale del Canada lo ha fatto la scorsa settimana mentre per la Fed americana l’annuncio dovrebbe arrivare mercoledì.
Alla base della decisione delle banche centrali c’è l’inflazione, che sta salendo a livelli allarmanti, anche per via della politica monetaria espansiva fatta per fronteggiare le due crisi, quella finanziaria e quella pandemica, negli ultimi anni.
La Banca Centrale Europea è arrivata per ultima a mettere in campo misure monetarie espansive (il famoso bazooka di Draghi) e questo è costato all’Italia la perdita di una parte del suo tessuto industriale e agli italiani lacrime e sangue; ora le economie del vecchio continente rischiano di essere le più penalizzate dal ritorno a politiche monetarie meno generose.
La creazione di un’unione monetaria in assenza di un’unione politica, la mancanza di una banca centrale che sia per statuto prestatrice di ultima istanza e la presenza nello stesso sistema monetario di Paesi con economie diverse e debiti distinti sta mostrando chiaramente la sua insostenibilità.
Negli ultimi anni la stampa ha celebrato trionfalmente il cambio di paradigma dell’UE che, dopo il famoso “whatever it takes” di Draghi, ha iniziato a comportarsi come uno Stato vero, difendendo gli interessi dei Paesi membri invece di applicare semplicemente i dogmi neoliberisti, come ha fatto con la Grecia e come prevedono i trattati costitutivi dell’Unione.
In realtà, con buona pace dei nostri euroinomani, non c’è stato alcun vero cambiamento se non legato a situazioni eccezionali e transitorie (la pandemia o la crisi finanziaria) e non potrà esserci nessun cambiamento perché non esiste uno Stato o un popolo europeo, e i cittadini tedeschi o finlandesi non considerano la sorte dei greci o dei portoghesi come indissolubilmente legata alla propria, e dunque non sono disposti, se non in circostanze eccezionali, a “pagare” anche per gli altri, principio cardine di ogni unità nazionale.
Senza unità nazionale e rappresentatività democratica non può esserci una politica economica o finanziaria comune, e forse sta arrivando il momento in cui anche Draghi dovrà prenderne atto.
ARNALDO VITANGELI